Fabrizio Ottaviani. La Gallina. Watson Edizioni
Recensione di Anna Vallerugo
Una misteriosa anziana si reca con fare furtivo dalla stimata famiglia De Giorgi, una delle famiglie più in vista della città, per consegnare un dono singolare e mai richiesto: una gallina, viva e vivace, dal temperamento – si scoprirà – incontenibile.
Abbandonato il pennuto senza spiegazioni, la vecchia esce di scena, lasciando increduli dapprima i domestici Adelmo e Irene – che si interrogheranno per buona parte del romanzo sulle modalità di soppressione dell’animale, presenza assai poco dignitosa nell’appartamento in cui tutto parla di alta borghesia – poi i padroni di casa.
La presenza inquietante della gallina, che svolazzando impazzita lorda preziosi tappeti d’epoca e lucidi parquet, fungerà da fulcro narrativo: è la sua inquietante apparizione nelle varie stanze della signorile abitazione che farà da detonatore di reazioni personali molto diverse tra loro. Nelle fragili maschere di perbenismo dei personaggi si incideranno sempre più profonde crepe che metteranno a nudo insopite ruggini e ripicche di bassa lega tra i domestici e ombre di sospetto reciproco e inattesi attriti tra i coniugi, in un inanellarsi di malintesi che porteranno a una caduta anticipata fin dal primo capitolo.
L’innesco della vicenda de La gallina, romanzo di Ottaviani già uscito nel 2011 per Marsilio, ora riproposto per felicissima scelta da Watson Edizioni, è dirompente e grottesco, volutamente avverso al contemporaneo e al contingente. Tempo e luogo non sono difatti specificati: la vicenda potrebbe, è lecito pensare, essere stata ambientata nel Duemila come negli anni Cinquanta, in una qualsiasi città italiana presumibilmente piccola, data l’importanza al decoro, alle apparenze, al mantenimento di una buona e dignitosa nomea che sembrano percorrere ogni pagina del romanzo (valori borghesi a ben vedere immutati nei decenni).
Ottaviani spiazza il lettore da subito, giocando con il contrasto fra l’urbano, civile, delle esteriormente placide esistenze dei protagonisti, interrotto significativamente dall’elemento di disturbo ferino, terragno.
L’androne sembrava deserto. Dopo essere entrata, la vecchia esaminò il pavimento di marmo rosa, che giudicò di cattivo gusto, quindi sfilando tra due schiere di vasi cinesi percorse la stretta passatoia che la separava dal casotto del portiere. Quando fu di fronte al cristallo alzò gli occhi: seduto su una bassa sedia imbottita, un essere scimmiesco vestito come il factotum di un circo continuava imperterrito a leggere il giornale, facendo tremolare le mostrine che aveva sulle spalle ogni volta che sfogliava una pagina. Quell’individuo, congetturò la vecchia, esorcizzava la propria mediocrità trattando tutti con la medesima indifferenza. A meno che non fossero i panni che lei indossava a spingere alla mancanza di riguardo. Di certo il portiere aveva intravisto il cappotto logoro cosparso di fili di paglia […] Solo allora ripiegò il quotidiano, staccò la testa dallo schienale e fece scivolare il vetro.
«Desidera?»
«Vorrei parlare con la signora Elena De Giorgi.»
«Settimo piano.» […]
Appena il portiere si tuffò di nuovo nella lettura del giornale, la vecchia si voltò: in un angolo scuro dell’androne le porte aperte dell’ascensore parevano attenderla. Raggiunse la cabina in pochi istanti, lasciandosi guidare dal tenue lucore che ne fuoriusciva, ma purtroppo, nell’attimo in cui entrò, il peso del corpo attivò il meccanismo dissimulato nella plafoniera. Un grosso tubo al neon prese ad accendersi e spegnersi con crescente convinzione finché ad un tratto, dopo una fase in cui pareva avesse rinunciato a funzionare, rischiarò con un lampo stabile e metallico l’esorbitante rigonfia mento che le deformava il cappotto all’altezza del seno.
Un’altra donna, nella stessa situazione, avrebbe tentato di rendere meno appariscente quella sorta di gobba eccentrica, magari in crociando le braccia sul petto: ma non lei. Si limitò a dare le spalle al portiere e a premere con calma un dito screpolato sul pulsante numero 7, l’ultimo, lieta di aver lasciato l’unica impronta visibile in quel paradiso di ottone, specchi e cromature. Subito dopo, l’ascensore diede uno scossone e dietro una tessera di plastica nera il numero dei piani iniziò a scorrere.
Mentre il sibilo dei motori testimoniava che l’ascensione verso l’attico procedeva a tutta velocità un odore di pane bagnato, granaglie sminuzzate e sterco si diffuse nella cabina, scatenandole un violento starnuto che appannò il centro dello specchio. Infastidita dal contrattempo la vecchia si soffiò il naso con un lurido fazzoletto a scacchi, poi torcendo il busto provò a pulire la superficie insozzata con il medesimo fazzoletto, ma l’operazione ottenne l’effetto opposto: sul vetro si allargò un alone denso e grigiastro che si seccò subito. Ancora non aveva deciso se insistere, magari sacrificando un lembo della camicia, o rinunciare quando l’improvviso arrestarsi della cabina le regalò un senso di leggerezza che la riportò al tempo in cui era giovane. La corsa verticale era finita. Poco prima che le porte si spalancassero una testa di gallina, così bianca e vellutata che sarebbe parsa quella di un’oca, se solo il becco fosse stato un po’ meno ricurvo, sbucò dal cappotto e ruotò come un timido periscopio. Questo finché non si imbatté nel suo doppio: perché allora la bestia si immobilizzò, fissando ostinata i brandelli del proprio riflesso nel vetro insozzato dello specchio il quale, ormai, non permetteva di contemplare alcuna immagine nella sua integrità. […] in quel momento una maniglia dorata si abbassò, una porta laccata di bianco si aprì cigolando e apparve un uomo di mezza età che le venne incontro con dei piccoli passi nervosi, fissando il pavimento. Si trattava certamente di un servo, si disse la vecchia. […] «Salve. Ho portato una gallina per la signora.»
È spiazzante la pacatezza della vecchia che porta in dono l’animale – cavallo di Troia, punto di non ritorno – in contrasto con l’irreggimentabile che l’animale causerà e agli sviluppi grotteschi, kafkiani che originerà.
Il cadere a precipizio dei De Giorgi potrebbe assumere i toni del tragico, della lucida analisi delle miserie umane e dei rapporti di coppia – quella regolare dei padroni di casa che si specchia nel doppio dei domestici, apparentemente lontani per ceto e origini questi, ma che in fondo adoperano i medesimi oggetti, vivono la stessa esistenza, in un eterno vicariato – non fosse che Ottaviani sceglie di imprimerle un altro passo: decide infatti per un’irresistibile ironia alta, perfettamente funzionale alla trama di per sé semplice, che accostata a una non comune attenzione al dettaglio e a un linguaggio impeccabile ne fanno una lettura godibilissima.
*Fabrizio Ottaviani (Sora, 1968) è scrittore, accademico, critico letterario e traduttore.