È il nostro turno: Strati e il circolo vizioso della Calabria

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “È il nostro turno” di Saverio Strati, Rubbettino editore, 2025
“È il nostro turno” non può che ispirarmi una lettera, perché questo romanzo del 1974, ripubblicato da Rubbettino, a un calabrese dà solo conferme. Sembrerà banale, ma al buon Strati, se fosse ancora in vita, scriverei semplicemente che “è tutto ancora uguale, persino la rabbia del tuo protagonista è simile alla nostra quando vediamo le cose storte. Chi non vuole stare in questo sistema deve farsi le valigie e andarsene, perché sa che non lo cambierà”.
“È il nostro turno”, infatti, racconta di un giovane di belle speranze che i genitori, contadini, mandano a studiare prima a Catanzaro, poi a Reggio Calabria e infine a Firenze. Durante il suo percorso, il protagonista incontra solo muri, ingiustizie sociali, mancate occasioni di emancipazione, favoritismi. Soldi in Calabria ne arrivano a palate ma invece di essere impiegati per le grandi opere, politici, faccendieri e gente del malaffare se li spartiscono. Tutto viene realizzato con approssimazione. Intanto, cominciano le migrazioni: gli onesti se ne vanno, i buontemponi si accomodano sempre più.
Fin quando lui resta nella sua regione, dividendosi tra il paesello e le due “città” in cui frequenta il Liceo, il malessere è contenuto. Egli avverte il pericolo ma non riesce a identificarlo. Quando invece emigra a Firenze, distaccandosi dalla terra natia, si rende conto che la Calabria è una fossa da cui nessuno si salva. “Eppure è un territorio vergine, c’è tutto da fare. Ci sarebbero tante opportunità”. Insomma, Strati fa dire al suo sveglio giovanotto, nel 1974, le stesse cose che ripetiamo noi oggi a distanza di decenni e decenni. Ce n’è abbastanza per piangere.
“È il nostro turno” è un’opera in cui critica e autocritica si incontrano. Ma è anche un romanzo che fa male, che fa venire le lacrime agli occhi a chi in questa regione ha deciso di rimanere. È un libro che consiglio, perché non fa “paternali”, ma disegna tutto senza patetismi o romanticismi. Strati mette in evidenza un popolo colluso, fiero di essere usato durante le campagne elettorali, convinto che solo con la mano miracolosa di qualcuno si possa progredire.
Il romanzo fa trapelare l’anima dei giovani che si piegano facilmente al sistema, che si vestono di individualismo, che sono comunità solo durante le processioni religiose. Il problema però è un altro: chi si prende la briga di leggere Strati? Qualche professore lo porterà mai in classe? Lo darà in pasto ai suoi alunni? Avrà il coraggio di ubriacare di verità i suoi ragazzi, oppure continuerà ad assegnare loro storie di farfalle che imparano a spiccare il volo, o novelle infarcite di piatti sentimenti da riassumere nei pensierini da recitare a fine anno?
Soprattutto, quanti calabresi sono disposti a fare i conti con un autore della propria regione il cui stile è quello dei maestri del Novecento? Nella sua prefazione, Tommaso Labate dice giustamente che “Strati è uno dei grandi dimenticati” non solo dai suoi conterranei, ma in Italia. Al di là del dispiacere che tale “dimenticanza” mi provoca, penso che sia dovere di qualsiasi amante della letteratura cominciare a diffondere la sua opera. Parlarne incessantemente.
Già nel 1977 con “Il selvaggio di Santa Venere”, Strati ha raccontato la Calabria delle ‘ndrine, anticipando certi argomenti, logicamente con uno stile completamente diverso, che poi hanno infarcito i libri di Gratteri. Con “È il nostro turno”, lo scrittore di Sant’Agata del Bianco mette in atto un’opera di smascheramento verso quella generazione che avrebbe dovuto cambiare il volto della regione, ma che invece ha preferito accomodarsi alle tavole imbandite dai politici e dai capibastone, svendendosi al truce assistenzialismo.
Ci sono pagine che per crudezza e concretezza farebbero impallidire i pasoliniani più arditi. In ciò va anche tratteggiato un altro aspetto, Strati non è regionalista, ma attua un confronto con la situazione nazionale. L’arretratezza della Calabria, che è simile a quella di oggi, è prima di tutto culturale e morale. Altro che tradizioni da difendere o rilancio dell’enogastronomia. Ciò che leggeremo tra queste righe è la voce di un uomo innamorato della sua terra, testimone del fatale passaggio dalla povertà materiale all’abbondanza di facciata.
La sfortuna di Strati è stata proprio quella di essere nato in Calabria, regione priva di vere opportunità per tutti, da cui, se non ti allinei al potere, devi fuggire per progredire. Altrimenti ti viene concessa la possibilità di esserci, ma nell’indifferenza. Leggete quindi Strati, non siate come coloro che trovano mille scuse per non farlo. L’autore salva solo una cosa: la rabbia dei calabresi che non vogliono piegarsi.