Il selvaggio di Santa Venere. Saverio Strati aveva già detto tutto nel 1977

Il selvaggio di Santa Venere. Saverio Strati aveva già detto tutto nel 1977

Articolo di Martino Ciano. Il Selvaggio di Santa Venere, Saverio Strati, Rubbettino Editore

I calabresi leggono gli scrittori calabresi? Questa domanda mi è sorta subito dopo aver concluso Il selvaggio di Santa Venere, romanzo di Saverio Strati pubblicato nel 1977 e vincitore, proprio in quell’anno, del Premio Campiello. Già quarantacinque anni fa, Strati aveva parlato con lucidità e schiettezza dei mali della Calabria, del divario creatosi tra questa regione e il resto d’Italia, della fuga dei cervelli e della ‘ndrangheta. Cosa ancor più sorprendente, lo stile dello scrittore, che sa essere aulico e “volgare”, “casereccio” e ricercato, creando così quella commistione di linguaggi che proiettano quest’opera nel contesto letterario europeo. Allora, perché un romanzo del genere resta ancora ai margini?

Saper leggere e scrivere

Lì, nei pressi dell’Aspromonte, la vita è dura, ma don Mico è un lavoratore instancabile che ama la sua terra. Ha combattuto la Prima Guerra mondiale, ha visto qualcosa di diverso dalla sua Calabria, si è confrontato e ha compreso che la vita è dialogo tra esseri differenti. Quando è ritornato a casa ha iniziato a lavorare non solo con l’intento di sfamare la sua famiglia, ma anche di emanciparsi. Perché se sai leggere e scrivere, sai pensare e sai anche difenderti dalle ingiustizie. E, infatti, lui avrebbe voluto tanto che suo figlio Leo diventasse un uomo istruito, ma niente, è stata una testa dura. Lui voleva essere un uomo temuto e rispettato e si è fatto tirare dentro alla ‘ndrangheta dal suo amico Santo. Leo se ne pentirà e riuscirà a fatica ad allontanarsene, ma solo allora capirà quanto il padre avesse ragione sul fatto che saper leggere e scrivere, vuol dire saper comprendere meglio la vita.

Una generazione va e un’altra viene

Il romanzo è a tre voci. Tra queste, la più interessante è quella di Dominic, figlio di Leo e nipote di don Mico. Lui è il giovane che fugge dalla Calabria, che vede la sua terra come una fossa antiquata nella quale si muore, verso cui prova rabbia e rancore, in cui l’arretratezza culturale e la ‘ndrangheta sono dei tumori inestirpabili. Lui è fuggito al Nord, qui lavora, qui progredisce e vede che il mondo è diverso. Qui i contadini sanno sfruttare la tecnologia per produrre di più e per lavorare di meno, perché non di solo lavoro vive l’uomo; qui non esiste la criminalità organizzata, qui si campa indubbiamente meglio, eppure Dominic è sempre attratto dalla Calabria, la nostalgia per la terra natia è forte. Leo, il padre, il selvaggio di Santa Venere, aveva saputo vivere in armonia con la natura aspra, aveva anche fatto delle fesserie, ma poi si era redento. Come don Mico aveva iniziato a zappare e a lavorare senza sosta, a pensare in grande, ma rispettando quella terra generosa e protettiva. Leo è quindi un candido selvaggio, un buono che crede nell’intelligenza e alla volontà, ma agli occhi del figlio Dominic, appare come una mosca bianca, un eroe solitario e stolto, un uomo che combatte contro i mulini a vento e che prima o poi deporrà le armi.

Strati ha detto tutto

Prima ancora dei professionisti dell’antimafia, Strati scrive dei riti di affiliazione della ‘ndrangheta, creando intorno a questi un’aura di religiosità negativa. Per quanto ignobile, don Mico riconoscerà che la ‘ndrangheta è frutto dell’ignoranza e dell’abbandono, perché se uno Stato ti lascia marcire, tu trovi un modo per sopravvivere. Eppure, il problema della migrazione non è solo legato alla criminalità organizzata, ma è effetto di quella povertà che fa regredire, che mai spinge all’emancipazione. Ciò di cui si accorgono tanto don Mico e Leo, i quali restano a Santa Venere, quanto Dominic, che guarda tutto dal Nord, è che questo stato di arretratezza è voluto dai poteri forti. Pochi vogliono che la Calabria progredisca, mentre proprio quei cretini ‘ndranghetisti, che tutto sono tranne che uomini veri o d’onore, si fanno sfruttare e continuano a farsi prendere in giro. In poche parole, per Strati i primi che devono riprendersi la propria dignità sono i calabresi. Se mai agiscono, mai cambieranno la situazione. Un messaggio che oggi sembra ovvio e scontato, ma nel 1977, quando questo romanzo venne pubblicato, veniva a malapena sussurrato.

Per amor di polemica

Cosa manca a Saverio Strati per entrare nella “rosa” dei grandi scrittori del Novecento? Forse la sua colpa è quella di essere calabrese? Non prendete queste righe come il solito piagnisteo, ma per molti pensare che dalla Calabria possa nascere qualcosa di bello e di buono è impossibile. Portiamo in fronte il marchio di ignoranti, cafoni e retrogradi. A Strati sarebbe bastato nascere in Sicilia o in Basilicata per avere maggiore considerazione tra gli italiani. Ma anche in questo caso, la colpa è di noi calabresi che dimentichiamo volentieri la nostra letteratura, che non abbiamo il coraggio di leggerci e che non riusciamo sempre a fare i conti con noi stessi. L’esterofilia è il male della nostra regione. Anch’io ho iniziato da poco a leggere gli autori della mia terra, anch’io sono stato un calabrese che non ha avuto fiducia nella sua regione, e di questo me ne vergogno. Così, leggendo Strati, Alvaro e La Cava ho ritrovato quella forza ancestrale che ci governa, quella malinconia vagabonda che ci riporta sempre a casa, ovunque andiamo e ovunque mettiamo tenda. Un calabrese si sentirà sempre tale e anche dall’altra parte del mondo cercherà la sua Calabria. Lo facevano anche i greci quando andavano alla ricerca di nuove terre da colonizzare, essi si fermavano sempre in luoghi che ricordassero la loro casa. Continuerò a leggere gli scrittori calabresi e a parlarne. Il prossimo libro sarà Vita di Stefano di Mario La Cava.

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