Crudeli tenerezze

Crudeli tenerezze

Racconto di Pippo Bella. In copertina: “La porta degli angeli”, opera di Franco Politano, (legno, gomma, 2015), LGT

In questo regno di crudeli tenerezze ognuno di noi è legato a una catena; la sua lunghezza non è costante ma varia di giorno in giorno, e tuttavia, ogni volta, asseconda i nostri allontanamenti. È un fatto raro che, nel muoverci, la catena si tenda al punto da bloccarci con uno strappo alla caviglia, lì dove fu posta al momento della nostra nascita e dove, con il trascorrere degli anni, è penetrata nella carne appiattendosi al di sotto della pelle; e con la carne adesso si confonde. Percepiamo però il morso del suo ferro specie nelle notti in cui, superato il velo del primo sonno, ci assale la nostalgia del tempo in cui le creature, anche le più spietate, erano composte di muscoli, tendini e sangue, e avevano candide zanne e artigli alla cui lacerazione mortale la preda avrebbe potuto sottrarsi, se audacia e astuzia l’avessero soccorsa.

Così trascorrono i nostri giorni, nell’illusione di poterci muovere a nostro agio, di aver dominio su ogni singolo punto del luogo che ci accoglie e, se ce ne prende il capriccio, persino di poter saltare in alto – sì, in alto: e se il dio delle altitudini ci è propizio, ancora più in alto, con rinnovati slanci, fino a sfiorare l’arcuata volta di metallo, quel cielo brunito dalla ruggine, da cui pendono falci uncini chiodi ai quali con i nostri salti vorremmo aggrapparci, dimentichi del loro ferro ostile, delle opere crudeli cui furono destinati nell’anno delle morti, al tempo dei massacri, perché l’uncino scava nella carne, la falce tronca ossa e tendini, il chiodo s’infigge nella mano.

Nel nostro cielo non ci sono lune, né stelle, né astri; forse in una vita precedente ne abbiamo contemplato un altro, e il ricordo della sua vastità talvolta ci sgomenta.

Qui tutto è aggressione e lotta. Viviamo negli inganni. Ci passano accanto, sfiorandoci nel buio delle nostre notti insonni, creature ricoperte di morbida lanugine. Subito desti, le seguiamo per coglierle in un momento di abbandono, perché le immaginiamo indaffarate ma prodighe di carezze; e abbiamo bisogno di calore e di conforto. Affondiamo le mani nel loro vello, ma per ritrarle all’istante con una smorfia di dolore e di ribrezzo: una materia aguzza le ha ferite, una lama aspra le ha tagliate.

A volte crediamo che angeli dalle fulve ali ci sorveglino; lasciamo allora che l’illusione di essere amati attenui per qualche istante la desolazione in cui sono avvolti i nostri giorni. Ma, all’improvviso, ecco che l’angelo ci aggredisce: noi in fondo siamo indomiti, accettiamo lo scontro. La forza non ci abbandona finché, avvinghiati a lui, avvertiamo che l’angelo ha muscoli e nervi come i nostri; ma come palpiamo l’eterno uncino nascosto tra le piume, ci assale lo sconforto. Invochiamo di essere uccisi, ma l’angelo ci risparmia. La sua non è clemenza: è solo un modo di perpetuare le nostre angosce.

Nel punto estremo del nostro regno c’è una porta. È in ferro. Si erge solitaria su due stipiti massicci. È sempre chiusa. Ad essa dedichiamo estenuanti pellegrinaggi. Ci attrae. Non sappiamo resistere al suo richiamo, ma nessuno di noi è in grado di illustrarne la ragione. In verità dovremmo temerla e tenercene distanti, perché il suo aspetto non è dissimile dal carattere punitivo di tutto ciò che dovrebbe nutrirci, o consolarci, o aiutarci: e invece ci trafigge. Essa mostra sull’intera superficie robusti aculei, alcuni dei quali dritti e come pronti a conficcarsi, altri ricurvi.

La porta ci odia e ci respinge – questo è chiaro. Nel corso dei secoli la nostra razza ha elaborato una complessa liturgia fatta di canti devoti e di gesti contriti nella speranza d’impietosire l’oscuro Dio che ha potere su quella soglia; e d’indurlo ad aprircela, perché presagiamo che di là da essa arde un regno di perfetta luce.

C’è stato qualcuno, in un passato immemorabile, il quale, stanco di implorare, si avventò sulla porta tempestandola di pugni. Nessuno è in grado più di dire quale sorte toccò a quel temerario. L’impronta del suo sangue restò visibile per molti lustri, poi cominciò a seccarsi. E adesso, se ci aiutiamo con una torcia, riusciamo appena a scorgerla come una pallida venatura sullo sfondo delle macchie di ruggine.

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