Articolo di Antonio Maria Porretti
Esiste una particolare insenatura nelle mappe della vita dove il guscio dell’infanzia si schiude per dare inizio a una mutazione di pelle, come avviene per le lucertole. E come piccoli rettili si corre a incontrare il mondo, assorbendo una conoscenza che aggiunge ma al tempo stesso deruba. Un impatto che può soffocare e corrompere la verginità di sentimenti fino ad allora manifestati e espressi senza censure. La gracilità dell’inesperienza rischia di sfaldare ogni punto di riferimento pregresso, sacrificandolo in nome e per conto di una nuova e più ampia accettazione. Crescita vuol dire anche Perdita.
Tutto questo fraseggio da manualetto di psicologia assai spicciola per arrivare a Close, Grand Prix della giuria nell’ultima kermesse festivaliera di Cannes, nonché ultima pellicola di Lukas Dhont di attuale programmazione nelle sale. Uno di quei film che fanno a pezzetti il cuore. Léo e Rémy sono due ragazzini che hanno sempre vissuto la loro amicizia avvolti nella bambagia di un’unione fraterna. Una simbiosi nutrita da reciproca ammirazione, tenerezza e protezione. Eppure, basta una domanda a loro rivolta da alcune compagne della scuola media che frequentano, per innescare una spaccatura che sconquasserà il loro rapporto: “Ma voi due state assieme?”
È questa la prima goccia di una vergogna, di un senso di inadeguatezza e di un bisogno di accettazione, che da pioggia battente si tramuta in bufera nell’animo di Léo, lasciandolo esposto alle sferzate di intemperie emotive a cui tenta di scampare rifugiandosi in un progressivo distacco da Rémy. Una mutazione di pelle che quest’ultimo vive come tradimento, non comprendendone le ragioni, e a cui risponde decretando la fine del loro piccolo universo, praticando un distacco ancora più estremo. Un taglio che scava una linea di confine inesorabile tra un prima e un dopo. Un graffio, un morso di un “Perché?” quale lascito di una sfioritura troppo precoce.
Soltanto Léo conosce quel “perché”, ma davanti alle famiglie di entrambi, alla madre di Rémy che lo considera “un quasi figlio”, dinanzi ai compagni di classe e agli insegnanti, si arma di silenzio. Quella stessa paura che lo ha portato a rifiutare, potrebbe generare altro rifiuto e questa volta, potrebbe essere lui il rifiutato. Deve prima rafforzarsi per affrontare e dire. Le scene dei suoi allenamenti di Hockey su ghiaccio sono metafora di questa sua preparazione ad affrontare la verità. I bui notturni, tappe obbligatorie per rivedere di nuovo una luce e avere il coraggio di voltarsi nuovamente dietro.
Una parabola sul pregiudizio e sugli effetti devastanti che può avere, se indirizzato verso esseri ancora troppo fragili e inermi per fronteggiarlo. Una storia che solo la delicatezza di occhio e animo di un regista come Lukas Dhont – già autore del magnifico e straziante Girl – poteva illustrare e dettagliare sul grande schermo. Il suo uso della fotografia è già di per sé narrazione, passando dai toni sgargianti dell’inizio a quelli di volta in volta più lividi, scabri e crudi del seguito. Il suo racconto punta su primi piani che estraggono da sguardi e silenzi, stati d’animo offerti allo spettatore come pagine bianche su cui trasferire le proprie reazioni. Dire a questo punto che gli interpreti sono tutti oltre ogni concetto di bravura, mi sembra quasi pleonastico: Eden Dambrine e Gustav De Waele (Léo e Rémy), insieme a Léa Drucker e Émilie Déquenne (le loro rispettive madri) e tutti gli altri, non sono rappresentazione ma vita che accade sullo schermo.
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