Addio

Addio

“Addio” è un racconto di Martino Ciano. In copertina una foto scattata e rielaborata dall’autore

Tu inventavi un tramonto: il cielo rosso come il sangue che ti colò dal naso dopo una pallonata in pieno viso, dopo lo schiaffo di tua madre per punire la disobbedienza del momento e quella futura. Si accapigliava il ricordo di una notte d’estate, l’ultima prima del controesodo, in cui il fuoco di un falò scappò di mano a voi adolescenti ubriachi, quasi nudi, con chitarre e sigarette in mano.

C’era il fiume che scorreva mesto e remissivo e la sua mestizia cullava persino i sogni di qualcuno, finché le fiamme non si accomodarono in mezzo al canneto e la leggera brezza alimentò la lingua di ciascuno di voi. Nella meraviglia del fuoco, tra bottiglie di birra vuote, appena scolate, e cartoni di piazza su cui scorreva olio d’oliva, siete scappati via come astuti ladri. Il mattino dopo era un deserto di cenere su una spiaggia di rifiuti.

Era l’estate dell’ultimo anno del secolo scorso e tu agitavi le braccia tra il velo dell’afa trapassato dalla luce del sole. Un costume azzurrino, un boxer da mare che si accordava con la tua pelle diafana, al tuo corpo magro, ai tuoi muscoli sodi. Non c’era bisogno di nulla per tenerli su, la natura te li avevi dati e anche conservati; ti sentivi dipinto a mano, fabbricato artigianalmente: una statua e un burattino; non pensavi all’eventualità che tu fossi parte di una sostanza vischiosa prodottasi per sfregamento di due organi. Era tutta colpa dell’immagine sacra che si è sempre avuta dei genitori: con un bacio ci hanno concepito, con l’amore ci hanno allevato.

Ti era stato dato un addio dalla fanciulla conosciuta su un Lungomare affollato, su cui si passeggiava fin quando le gambe non diventavano di cemento, su cui si chiedeva a qualcuna la possibilità di conoscerla. Andò così anche con quella tipa che ti bucò il cuore: ti avvicinasti e le dicesti: “ti posso conoscere”, e lei cedette, nonostante un’amica la tenesse a braccetto, nonostante lei ti avesse guardato in cagnesco, nonostante i tuoi occhi fossero concentrati sui seni di entrambe.

Ora che ti ho visto da lontano e non posso più darti del “tu”, dico che…

… del suo paese bagnato dal mare e abbracciato dai monti evidenziava la noia. Ella si alimentava in continuazione; diventava ingombrante, obesa, irremovibile. Eppure, la noia, anche quella che lo aveva stregato, si piaceva così: piena e impossibile da non osservare. D’estate e di inverno si accapigliavano le polemiche: niente c’è e niente ci sarà. Ma ci vive qualcuno qui, anzi parecchi, e “parecchi” è un termine che si addice meglio a una quantità che si aggira tra “pochi” e “tanti”. Ognuno ci sta per tranquillità sua, anche perché in un altro posto non potrebbe fare la stessa cosa, ossia lasciarsi ammaliare dalla noia. E va così, in maniera impersonale, seguendo la forza della dannazione.

Ogni volta lui era vittima del passato, del ricordo che aggiunge sempre novità, di particolari che erano forse dimenticati, dolori che si erano convertiti in gioie. Vedevo i suoi occhi umidi, persi tra una nuvola che copriva il sole, incantati dal cielo che delimitava l’eternità. Si sedeva al tavolino di un bar, beveva un bicchiere di vino rosso, con la mano sinistra sorreggeva la guancia.

La brezza autunnale cullava le emozioni, le impastava fino a renderle omogenee, indistinguibili per colore e consistenza. Lui muto accoglieva la vita e muto osservava quella degli altri. Nulla lo trasportava e da nulla si lasciava suggestionare. Era indolente, timido, raccolto nei centimetri di spazio che occupava. Concluse il suo passaggio terreno con una frase: “È il fiume la mia casa senza dolore”.

Ora che nessuno sa dove sei, ora che tutto è diventato un addio, ritorno a darti del “tu”…

Ti sei addormentato ricordando, assuefatto dal nettare fuoriuscito dalle tue cisti rotte a unghiate. Saziato dalla volontà e per niente convinto dei tuoi istinti. Un giorno hai pranzato con le tue lacrime, hai parlato con i tuoi morti senza dare retta ai vivi. Ti spronarono a mangiare realmente un piatto di pasta senza sugo. Rigatoni bianchi lavati nella tua bocca, righe piatte nel tuo cervello.

La memoria si inabissa nella fantasia abbandonandosi alla libera associazione del “vero” con il “forse” con il “desiderio”. Per te era malattia mortale anche la dimenticanza. Il bacio, l’addio, e tutto si mosse così; morire in solitudine non faceva per te. C’è chi ci riesce, però, e se ne vanta.

Era gennaio; il banchetto imbastito tra i nembi, il vento che faceva piegare la testa alle sterpaglie…
Era ricresciuto il canneto che andò a fuoco nell’ultima estate del secolo scorso.
Tu dove rinascerai?

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