Restare anfibi

Restare anfibi

“Restare anfibi” è una prosa di Doris Bellomusto. In copertina una foto dell’autrice

«Di solito le donne lasciano uno spazio, nel loro mondo, per gli avvenimenti inesplicabili. Nel mondo delle donne possono succedere cose che sono escluse dal mondo degli uomini. Un uomo crede in modo assoluto nella propria immagine del mondo. Deve avere un’immagine esatta del proprio mondo perché ha bisogno del mondo; il mondo, invece, ha bisogno della donna.»
C.G.Jung – Analisi dei sogni.

Di sera e di primo mattino, nel mio giardino in Calabria si sente forte l’odore dolce delle belle di notte, lo annuso nell’aria in questo esatto istante, seduta sulla mia amaca, mentre sul mio quaderno giallo appunto il gracidio delle rane, per non dimenticarlo.

Dicono le rane che al mondo si sta. Hanno ragione, il verbo vivere è un verbo transitivo, l’azione del vivere passa dal soggetto all’oggetto. La vita ci attraversa, la vita si attraversa e il segreto è adattarsi alle circostanze, assecondare le coincidenze, ubbidire alla propria natura e, possibilmente, restare anfibi.

Molta parte del mio tempo la trascorro giardino, stamattina chiedo alle rane se è vero che la vita può avere un senso o se, invece, l’unica cosa sensata è respirare il profumo delle belle di notte, ascoltare il suono delle campane e le voci di paese e, semplicemente, sperare che questo odore buono e questo grembo possano bastare.

E le vite impossibili? Chiedono le rane.
Sono invisibili, ma sono tutte qui – rispondo io.

Non mi distacco mai da niente, vorrei vivere per sottrazione e sono consapevole che resta solo ciò che si sottrae all’oblio, eppure accumulo sul ventre tutte le cose che mi sfiorano e che non vivo. Le mie identità inespresse sono tutte qui, conservate sotto pelle. Ho un ventre morbido che si fa grembo di sogni e fantasie, accumulo immagini, simboli, desideri. Non so perdere niente di me, ma, forse, imparerò a perdermi.

In Calabria quello che sono stata, avrei potuto essere, sono e sarò mi rimescola il sangue e ad Agosto mi sento sempre un poco ubriaca. Mi sento stanca, felice, delusa, illusa, mi proietto indietro e fuggo avanti, nel tempo che non conosco. Giro, come la gonna larga di chi balla la tarantella, simbolo di un folklore che si fa spettacolo, ma che, forse, è già troppo distante da ciò che è stato; è ancora; sarà per sempre; non è più; è perduto; è sotterraneo; è misterioso e, forse, è ancora qui per darci il ritmo che abbiamo dimenticato.

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