Rocco Giudice: tre stanze in prosa per le sue poesie

Rocco Giudice: tre stanze in prosa per le sue poesie

Recensione di Pippo Bella. In copertina: “In linea d’aria” di Rocco Giudice, Qed Edizioni, 2025

1. Le cose, la voce, i fantasmi

Le cose, come sono nella solitudine di un giardino, o come si incontrano per le pensose strade della mente, affollano lo sguardo poetico di Rocco Giudice. Si rivelano le cose, quali esausti o muti emblemi di altre cose (“Spenti emblemi divenuti enigmi, dormono le acacie”), ma non affiorano presenze, ché degli uomini (del loro cuore mai raggiunto) qui ha senso solo la mancanza. Si può perfino dire che per Rocco Giudice l’esserci di qualcuno, il suo offrirsi nella verità del giorno o nella vaghezza del ricordo o nell’incertezza del sogno, acquista spessore e forza nella dimensione del suo essere in absentia, del suo essere fantasma. Sicché la memoria entra in lotta con l’oblio, come la voce con il silenzio. Ricercate antinomie: contrasti di senso, ma senza asprezza – il sublime soffia dove vuole, dove un’ombra si allunga su un muro insignificante o dove con il vento (quel vento che qui non solo è metafora, ma un vivace personaggio: “Tutte le cose sono piene di dei” Talete, citato in esergo) giunge un “suono divelto dalla voce”. Nel pensiero poetante, gli specchi rimandano il riflesso di altri, più puri specchi: e ciò che vi è riflesso non ci è mai stato accanto. Nell’occhio che contempla l’inesausto apparire e dileguare delle forme, quelle forme alle quali il desiderio o il rimpianto del poeta fulmineo si attacca, come il naufrago a un tronco nelle onde, in questo sguardo la contraddizione non sussiste: l’ossimoro è la verità del mondo, così che ogni cosa, ogni fenomeno, ogni figura può legittimamente venir qualificata da ciò che logicamente raffigura il suo contrario. I versi costruiti su raffinate incongruenze sono svariati, in queste poesie di Rocco Giudice; e anzi costituiscono come la musica del pensiero che dalle dissonanze ricava suoni trafiggenti (“Solo il silenzio colora la tua voce”. “… Non più che fosse canto il duplice silenzio…”).

2. Il desiderio e l’assenza

Le cose sono vere solo per un istante, purtroppo così breve da non potersi cogliere; delle cose sopravvivono quindi le nude spoglie, e di una persona amata (ora o allora, poco importa: adesso è come fu una volta) rimane il sogno: “Più dolci del sonno le luci del risveglio che dai tuoi occhi ho tratto alle mie labbra (…) averti ancora accanto, più vera tu di chi ti sta sognando”. Ecco, dunque, che il desiderio che cerca altri corpi e altri volti, afferra il nulla, non incontra altro che ombre (“ombre che la luce lascia intatte”). Il sentimento poetico di Rocco Giudice si aggira in una fiorita waste land, in uno spazio gremito di parvenze, delicate o struggenti, silenziose o chiamanti, in una dimensione dove la felicità che fu promessa si dimostra un ridevole inganno; la pienezza della vita intravista negli istanti di desiderio è pura nebbia, foschia che si dissolve al primo raggio, vana come “una luce che trabocca”, e ciò che istiga la nostra pulsione di possesso (o il nostro amore, in termini più alti) sta dinanzi al nostro sguardo “come cosa a nessun mondo appartenuta”. A proposito di amore: qui se ne ragiona di rado, e forse la parola non è mai pronunciata. Amare significa esercitare l’amore su un volto, su un corpo; e da questo volto e questo corpo essere scelti. Ma in questa terra attraversata da Rocco, nella quale ogni cosa lascia segni ormai indecifrabili, e dalla quale perfino il cielo si ritrae, l’amore non è un dono ma una perdita rammemorante.

3. Il tempo

Il tempo di queste poesie è un tempo fermo, un cominciamento senza sviluppo, un vasto inizio in cui è recluso anche il suo termine; sono versi come congelati in un istante, come l’apparire di un eterno lampo, nelle cavità di una realtà immutabile, dove stanno figure già trasmutate in simboli – quella realtà che balena nei sogni o nei ricordi, estranea ai nostri sensi eppure con noi in intimo rapporto, e il cui rimpianto è nel cuore del poeta inestinguibile. “(…) Non finire mai è come avere fine a ogni istante laddove nessun limite sussiste”. Le cose non accadono mai per intero, in esse c’è sempre un resto, qualcosa che non colpisce i sensi – qualcosa che si manifesta soltanto come un’ombra, o il riverbero di un’entità impalpabile, situata in un altrove sigillato al modo di un enigma. “E adesso quel che c’è sembra il riverbero di quello che non c’è (…) tutto visto esattamente com’è l’istante prima d’essere per sempre”. Insensatezza e assenza: le visioni certe e irrefutabili del senso comune dileguano come fumo al vento non appena il poeta le consideri nella loro nudità fenomenica, nel loro essere profane, nel loro situarsi al di fuori del tempio, poiché le cose a cui esse si richiamano sono – senza il soccorso del sacro, cioè di un principio che le trascenda – degradate a mere funzioni, a oggetti fungibili: “L’enigma mise in fuga i numi”. Non rimane disponibile che l’incolore prosa del mondo. L’assenza, da parte sua, insidia ed estenua la certezza dei nostri possessi, ché per quanto numerose e grate siano le cose (le persone, gli amori, gli averi) di cui disponiamo, la possibilità di perderle, per una qualche ragione, in un solo istante, imprime nel nostro animo una inquietudine – della quale il poeta conosce tutte le sillabe e tutti gli accenti. “(…) Stordiva quello che era o che sarà l’assenza che già dentro il futuro sconfinava”.

Post correlati