La porta aperta dell’orizzonte: il viaggio di Mirella Muià

La porta aperta dell’orizzonte: il viaggio di Mirella Muià

Recensione di Angelo Maddalena. In copertina: La porta aperta dell’orizzonte, storia di un lungo viaggio” di Mirella Muià, edizioni Bit Culturali, Corigliano calabro

Quella che Mirella Muià racconta nel libro La porta aperta dell’orizzonte è una storia, la sua, che ha del profetico, del mistico fra oriente e occidente. Una storia davvero speciale, ma tutto ciò non basta a descrivere il valore di questa donna che parte da Siderno da bambina, figlia di un padre navigante, che va ad abitare a Genova, e poi si trasferisce in Francia per fare la professoressa di francese e la ricercatrice alla Sorbona, con una tesi di letteratura comparata, e poi, “in un tempo ultimo della vita”, decide di lasciare tutto per tornare in Calabria, a Cosenza (con una figlia adolescente) per poi andare a vivere in un antico eremo bizantino della Locride, a Gerace.

Sono andato a trovare Mirella Muià nel suo eremo, ho incontrato i suoi occhi neri e splendenti, il suo volto avvolto in un velo più simile a quello di una donna araba che occidentale, vestita di una tunica simile a quella delle sorelle della piccola famiglia dell’Annunziata, ordine fondato da Giuseppe Dossetti, alla quale Mirella si ispira, ma lo fa da eremita, seguendo una tradizione molto fervida che attraversa i secoli ed è ancora viva, anche tramite lei e altri eremiti contemporanei stanziatisi nella Locride negli ultimi venti anni, grazie all’incoraggiamento del vescovo Giancarlo Bregantini.

In La porta aperta dell’orizzonte, Mirella scrive che già negli anni del liceo leggeva David Maria Turoldo e Theillard de Chardin: “Sognavo con loro un Dio dell’Universo e delle piccole cose e di una vita spesa in comunione con lui, vedendolo presente ovunque”, e subito dopo confessa che da piccola desiderava di vivere come il profeta Elia, “sul monte, nella grotta”, ma poi, all’età di 15 anni “accadde qualcosa, che non saprei definire: era come se le esperienze passate nel vivere e nel vedere la povertà e l’umiliazione di tanti, e l’indifferenza e l’ingiustizia che mi circondava, mi avessero scavato dentro un solco invisibile, emergendo dalla coscienza. Allora sorse la domanda: perché? E la rivolsi proprio a lui, al Dio dell’universo e delle piccole cose: “Dove sei? Perché non fai nulla? Non vedi, non senti?” E un giorno gli dissi: ‘Se te ne stai a guardare, io non starò con te. Se mi vuoi, mi cerchi tu!’. E quel giorno durò per venticinque anni…”

Nel 1969, dopo aver partecipato, come studentessa di un liceo di Genova, alle lotte rendere la scuola più aperta e meno classista, Mirella vince una borsa di studio per un periodo di studio in Germania, per proseguire la preparazione della tesi in letteratura tedesca: “Avevo scelto la poesia di Friedrich Hoelderlin, e non mi spettavo di avere la possibilità di recarmi nel luogo in cui finì la sua vita: Heildelberg” (…) Mi sembrava di affacciarmi su un’apertura della storia di quel luogo, come se volesse raccontarmi qualcosa proprio degli anni in cui nasceva la poesia di Hoeldelrin, e la cultura di quel tempo non si assoggettava più ai poteri dei principi, ma cercava di riportare alla memoria le figure degli esuli e dei ribelli del passato”.

L’identità di figlia di emigrati e di un padre navigante avvicina Mirella a tutti gli esuli, e questo lo esprime e lo rivendica quando insegna in un liceo di Parigi, quando si tratta di coinvolgere e far sentire partecipi i figli degli algerini e di tanti paesi africani che negli anni ‘70 arrivano sempre più numerosi a riempire le periferie delle città francesi: “Era come se mi riservassi il diritto di essere me stessa solo in alcuni brevi momenti: nel dialogo con un poeta o un filosofo, oppure nel contatto con quelli che sarebbero stati, negli anni successivi, i miei studenti, con cui mi aprivo comunicando spontaneamente quel che avevo dentro, o nell’aprirmi ai luoghi che attraversavo, le isole della Senna, i Boulevards, le stradine di Montmartre e dei quartieri più antichi: parlavo con ciò che mi parlava…e mi sentivo ‘parlata’ da tutto ciò che aveva una storia umana di erranza, di bellezza, di povertà, di solitudine comunicativa – allora mi sembrava di essere a casa ovunque”.

Poi, passati i venticinque anni da “quel giorno”, arriva l’incontro con quel Dio con cui aveva “litigato” a 15 anni: “Sulla soglia di casa, mi fermai un attimo, giusto il tempo di realizzare che un sentimento sconosciuto aveva preso dimora in me, e mi abitava: la figlia di un padre errante sugli oceani aveva accolto, in quel giorno nuovo, la richiesta d’asilo di una paternità errante nel mondo, ricevuta da quel corpo che portava in sé stesso tutto l’esilio di Dio…”

Sonia ed Esther, sono come due fari per Mirella, nel suo cammino di migrante tra Italia e Francia. La prima è una maestra delle scuole elementari di quando era a Genova, la seconda è una donna di Parigi. Anche grazie a loro trova dei libri, tra cui la biografia di Santa Teresa d’Avila e la bibbia. La lettura della Genesi e del Vangelo di Giovanni aprono delle finestre da cui arriva una luce per tanto tempo ignorata o covata: “Ecco la luce che splende nelle tenebre e non si spegne, ma le percorre, le attraversa come un fiume carsico, o come il sangue nelle vene del corpo umano”. Finestre come ferite:“Le divisioni sono come le ferite di quell’essere uno, e quelle ferite, se lo vogliamo riconoscere, sono le porte stesse della luce…”.

Mirella, oltre a scrivere e pubblicare libri di poesia e un romanzo in francese, inizia a dipingere icone bizantine, frequentando, a Parigi, un corso con un maestro. Poi c’è il ritorno in Calabria, verso l’eremo dell’Unità, dove abita da ormai quasi venti anni. “La partenza da Parigi, oltrepassando Genova, e fino al luogo più estremo del continente europeo, non si può dire una scelta, ma una risposta: ho risposto così a qualcosa che non era nostalgia, non era desiderio di ritorno alle origini, non era attaccamento ideale alle radici – ché ormai sradicata mi sarei sentita sempre. Ma era un ‘sì’ a quella che mi si presentò subito come una ‘salita’… ‘Ecco, io vengo, e sembra che si tratti di una discesa, ma in realtà è una salita, e tale è tuttora…”

Il finale di “La porta aperta dell’orizzonte” riprende un aneddoto dell’inizio, quello del rabbino Yehoshua ben Levi, ripreso dal Talmud babilonese. “La sorte del suo popolo esiliato lo addolorava al punto da rivolgersi al profeta Elia, pregandolo di supplicare Dio perché inviasse presto il Messia. Elia gli rispose: ‘Il Messia è già venuto!’. Ebbene sì, finisce così questo libro profetico e mistico tra oriente e occidente, scritto con la vita da una donna dell’estremo sud d’Europa: “Io sono già venuto, perché sono presente dove non mi cercate, nelle vostre stesse ferite…Apritemi quelle porte, non vogliate nasconderle, non chiudetele, perché io possa entrare attraverso di esse”.

“Ecco, io sto alla porta e busso…” Ho bussato all’eremo di Mirella e ho avuto la gioia di ricevere dalle sue mani questo prezioso libro, scrigno di poesia e di profezia incarnata.

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