Preghiere per cellule impazzite di Matteo Fais

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Preghiere per cellule impazzite” di Matteo Fais, Connessioni editore, 2025
Ed ecco la vita prima della poesia. È come guardarsi allo specchio e porsi mille domande, principalmente sul proprio posto nel mondo. Cosa farne della propria esperienza? Essa è utile durante l’atto creativo o è un ostacolo? L’arte ci chiama a essere o a non essere?
“Preghiere per cellule impazzite” di Matteo Fais suscita tante, troppe domande insieme. Non lo fa con mansuetudine, ma arrivando subito al cuore d’ogni faccenda. Verso dopo verso si alimenta una prosa instabile, che si fa beffa di ogni categoria estetica.
Più che preghiere, tra queste pagine troviamo imprecazioni, edonismi, atti impuri nei confronti della vita, la morte e la sua capacità di mimetizzarsi. Tutti questi elementi si contaminano tra loro, lasciando aperta però la speranza. Ed è questo l’aspetto che più mi ha colpito delle poesie di Fais: c’è uno spiraglio, un invito a continuare, la ricerca del paciere e della grazia nonostante tutto. Il poeta è vivo. Non testimonia solo la caduta, non massacra ogni istituzione e ogni archetipo solo per il gusto di essere contro il mondo intero. Egli persevera. Punta a oltrepassare ogni convenzione.
“Preghiere per cellule impazzite” è la realtà per ciò che è, ossia essere qui-ora; è la donna e l’uomo per ciò che sono, ovvero amore e violenza, dolcezza intrisa di paura dell’abbandono, spaesamento davanti alla vita, terrore della fine; è il cancro che divora il corpo, che improvvisamente dà un senso alle cose che ci attraversano, che ci danno gioia e che ci ammazzano.
Fais è volgare, violento e disilluso, ma nei suoi versi c’è il compimento dell’unica speranza che l’uomo può darsi: esserci senza indugiare. E cosa significa questo? Io una risposta la provo a dare: imparare a parlare di nuovo, quindi a comprendere diversamente ciò che avviene a noi e agli altri.
Sono così tante le etichette a cui abbiamo regalato libertà di pensiero e di azione che a venir danneggiato è stato il nostro apparato cognitivo. Una lettura caustica del presente o della propria esperienza non è sinonimo di nichilismo o di estremo pessimismo, ma di maturità nei confronti dell’esistenza.
Fais non potrà mai finire in una antologia scolastica, non potrà mai essere supportato dalle scuole di un pensiero che è raffinato solo nel modo in cui sorvola sulle questioni. I tempi non sono maturi per prendere atto che la maschera è caduta, che la favola è diventata reale. La spettacolarizzazione forzata di ogni accadimento ha origine dalla solitudine, dalla necessità di non affogare in un mondo che esclude chi non appare.
“Preghiere per cellule impazzite” invece si toglie il sassolino dalla scarpa, si mette a nudo e si evira, evitando di scendere a patti con l’ipocrisia. Resta lì, come una lente di ingrandimento sull’esperienza, usando le parole che nessuno vuole più pronunciare, dando alla vita la sua dimensione di normale precarietà.