Marie Cardinal: i traumi delle donne si fanno inchiostro

Marie Cardinal, scrittrice sincera che di sessualità parla con naturalezza e semplicità. Una penna disarmante e liberatrice. L’articolo è di Rosanna Pontoriero. La foto è stata fornita dall’autrice
Ci insegnano a sopravvivere, che equivale a conservare i traumi, a disporli lì: in un angolo tacito della credenza, che fa rima con coscienza. Marie Cardinal questo lo aveva imparato bene e lo sapeva raccontare con naturalezza, come se parlasse in confidenza con sue simili, nel salotto di casa. Una penna meravigliosamente semplice, impegnata a calcare i dirupi del rimosso, patrimonio straordinario per le romanziere.
Racconta di disfunzionalità, sensi di colpa, istinti repressi, voci mistificate, emozioni stigmatizzate, desideri incompresi, giudizi facili, inquisizioni quotidiane. Lo fa senza scandalizzare, perché in “Le parole per dirlo” ci siamo tutti, anzi tutte, con i patriarchi e le matriarche che ci hanno allevato, il loro fare da adulti bugiardi e dolci gendarmi.
Un pasticciaccio tra femmine (e non solo)
Marie Cardinal, nata ad Algeri nel 1929 e morta in Francia nel 2001, è una scrittrice che va scovata, non solo nel catalogo di Bompiani, ma tra chi meglio riesce a raccontare il pasticciaccio del sentire femminile, l’ingarbugliata matassa che si eredita, senza che venga mai sbrogliata, di madre in figlia, di femmina in femmina.
Amaro destino di chi deve tirare a campare, in una pozzanghera fetida di non detto, in un archivio di pensieri censurati. Siamo creature impedite sin dal primo vagito: personificazioni del si fa e si dice così, sino a diventare malate moribonde. Dice la madre alla protagonista bambina, nel romanzo cult e autobiografico “Le parole per dirlo”: «Il fatto di avere una regola è una cosa. Quello di avere bambini è un’altra, anche se è legato alla regola. Il primo dà fastidio nei primi tempi, ma poi ci si abitua ed è molto facile da nascondere».
L’ultimo verbo è sostanza del mondo. Ma poi, senti e senti: «Ebbene, bambina mia, sono andata a riprendere la mia vecchia bicicletta (…) ho pedalato per i campi, nella terra arata, ovunque. Niente. Ho ingoiato interi tubetti di chinino e aspirina. Niente. (…) E avanti di questo passo per oltre sei mesi, dopo di che ho dovuto arrendermi all’evidenza, ero incinta e presto avrei avuto un altro figlio».
E dunque, ad esser sinceri: «Quello che ho chiamato la carognata di mia madre non è il fatto che abbia voluto abortire. La carognata l’ha fatta perché non è riuscita ad andare fino in fondo. In seguito ha continuato a proiettare il suo odio su di me e infine mi ha confessato il suo squallido crimine, i suoi poveri tentativi di omicidio. (…) Eppure è stato grazie alla carognata di mia madre che tanti anni dopo sul divano nel vicolo, sono riuscita ad analizzare più facilmente i turbamenti della mia vita trascorsa». Quanta consapevolezza ha Marie Cardinal e ce la comunica senza atteggiarsi. Esce fuori con fluidità, come il sangue della sua incomprensibile malattia.
Quante carognate ci hanno visto ardere di incoscienza, strozzati in un fetore di azioni genetiche e vigliaccherie parentali, idiosincrasie assorbite, una volta che l’ovulo è stato fecondato. Siamo feti sgangherati, penitenti masochisti: «Ora mi sembrava di aver provocato l’aborto – scrive sempre la Cardinal – di me stessa, trafiggendo l’occhio in fondo al tubo. Quell’occhio non era solo quello di mia madre, di Dio, della società, era anche il mio».
Occhi che distruggono e dai quali si può guarire, per rinascere. Rimane la spontaneità delle romanziere, anime pure, che della bugiarderia ereditata fanno una bandiera di conoscenza, forse anche di liberazione. Sono oneste.