Luca Ricci: la concretezza di una riga

L’intervista a Luca Ricci è stata realizzata da Elisa Zumpano, in collaborazione con il centro Connessioni
Un grande scrittore è sempre anche un grande lettore. Se la tua scrittura fosse un edificio quali opere letterarie ne costituirebbero le fondamenta?
Posso dire che la mia scrittura, fattualmente, si sia sviluppata dal corto al lungo. Quindi per parlare di fondamenta tirerei in ballo l’aforisma. Soprattutto E. M. Cioran. Avevo appena abbandonato la Scuola d’Arte drammatica Paolo Grassi a Milano e dal mio piccolo gruppo d’amici ero visto come una specie di reietto. Tornare a Pisa – che all’epoca mi divertivo a chiamare la clinica psichiatrica di P. – era percepito come un bruciante fallimento. Mi turavo il naso e cercavo di seguire qualche lezione alla facoltà di Lettere, ma la noia e il fastidio e il ribrezzo erano insopportabili. Fu così che cominciai a scrivere aforismi. Non avrei avuto la volontà né l’energia per darmi a qualcosa di più corposo. Non era tanto una resistenza ideologica – certo, ai miei occhi darsi al romanzo sarebbe stata una pratica reazionaria -, quanto una questione di tenuta fisica. A quel tempo non ho mai scritto pensando di pubblicare, men che mai carezzando l’ipotesi di avviare una carriera letteraria di qualche tipo. Scrivevo solo per sopravvivere a un’altra notte. Questo non vuol dire che fossi sciatto, tutt’altro. Proprio perché non c’era nessuno da prendere per il naso, imparai l’ostinazione e la devozione di lavorare su una singola frase anche fino all’alba. Posso ben dire che tutto quello che ho imparato sulla scrittura – e che poi a poco a poco si è andato dilatando – deriva da quelle notti di lavoro. Il primo romanzo che non mi ha annoiato è stato Lo straniero di Albert Camus, con quell’attacco superlativo: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”. Ecco l’assurdità della vita rivelata in una riga. Una riga, un aforisma. Chi impara a scrivere una riga perfetta può coltivare grandi ambizioni. La perfezione è una droga potente, una volta che l’hai assaggiata è difficile fare retromarcia, si diventa esigenti con se stessi. Ci si allena nella precisione, che per quanto mi riguarda è l’abilità principale di uno scrittore. Uno scrittore deve essere preciso.
E oggi? Scrivi ancora solo per sopravvivere un’altra notte? O pensi anche alla traccia che lascerai su chi ti leggerà? Che effetto ti fa immaginare che potresti essere per qualcuno quello che per te è stato Camus?
La storia della letteratura è anche una storia di continue prosecuzioni, o forse si dovrebbe parlare con più precisione di reincarnazioni. I libri si reincarnano in altri libri, usano gli autori come meri esecutori, sacerdoti che officiano e perpetrano il Verbo. Spesso questo domino stregato tocca autori distanti nel tempo che non possono più comunicare direttamente tra loro. Questo succede a priori, anche involontariamente. Non occorre aver letto tanto. Soltanto dopo aver scritto “Gli autunnali” ho scoperto le affinità inquietanti tra il mio attacco e quelli di Moravia, Parise, Soldati, Montefoschi. Sarebbe il romanzo borghese. Con un corollario importante: il romanzo borghese non è il romanzo della borghesia ma è il romanzo sulla borghesia. Sono critiche spietate, radicali, che vanno in tilt, che si contraddicono. La letteratura non è mai manichea.
La tua scrittura, in alcuni casi fin dai titoli, pare dominata dal paradigma di ciò che di più volubile e imperfetto si trova nella vita: l’amore di coppia.
Dopo svariati anni di pratica letteraria posso dire che un tema vale l’altro. Il mio tema è la distruzione del tema. Il contenuto di un libro è la letteratura. “L’amore e altre forme d’odio” è stato il libro che più si è avvicinato a questo scopo, essendo impostato su una serie di elementi volti al negativo. La casa come non luogo (esattamente come una stazione ferroviaria o la sala d’attesa di un dentista); il minimalismo come non lingua (vocaboli larghi, sintassi ridotta ai minimi termini); i personaggi come non personaggi (privati del nome proprio e di ogni orpello psicologico); infine, l’amore come non tema (chiunque può scrivere d’amore, quindi nessuno). Si occupano d’amore soltanto gli oziosi o gli scrittori. Non ne so niente dell’amore e, più ben più importante, non ho voluto insegnare niente sull’amore. La pedagogia insita nei chick lit, che adesso vengono chiamati romance, mi ripugna. Miro a una letteratura che sia exemplum di se stessa. Il tema è una scusa per fare la letteratura. Oggigiorno, purtroppo, constato che è il contrario.
Se è vero che il tema è una scusa per fare letteratura perché in fin dei conti è la forma a rendere tale un’opera letteraria (mi viene in mente quella memorabile scena di “Pastorale americana” in cui Roth descrive una lasagna come fosse la Cappella Sistina), è pur vero che alcuni temi affiorano ossessivamente dalle tue pagine, abbiamo già accennato all’amore, aggiungerei il Tempo attraverso il tempo, come nel Racconto della pioggia o nel ciclo delle stagioni. Sbaglio?
Certo che ogni scrittore è scelto da un nucleo tematico, ma parlando male del tema quel che mi preme sottolineare è una serie di priorità, di rapporti di forza, dentro alla creazione letteraria. Mi dispiace l’opera che nasce come didascalia di un tema; mi dispiace il libro che viene inteso come comizio. La letteratura ingessata da una tesi perde una delle sue qualità precipue: la flessibilità. Diventa come ogni altro discorso extra-letterario disponibile sulla piazza. Oggi più che mai invece la letteratura dovrebbe essere un corpo estraneo, provenire dall’altrove. Il tempo non è evitabile scrivendo. Noi siamo caricati a tempo, in quanto essere mortali. Sopra ciascuna delle nostre teste c’è una clessidra. Più che un tema lo penso proprio come una struttura intrinseca della nostra esperienza vitale, e quindi letteraria.
Attraverso il linguaggio ricrei magistralmente le stratificazioni psicologiche e gestuali necessarie a dare lo spessore semantico adatto a trascrivere la profondità archeologica del desiderio e dei sentimenti. Eppure mentre con le parole ci restituisci i “moti del cuore”, anche i più mostruosi e indecenti, continuamente i tuoi personaggi delle parole diffidano, come se le parole somigliassero a quel drappo che separa “Gli amanti” di Magritte. Quanto ti tormenta l’ambiguità insanabile del linguaggio, l’impossibilità, al fondo, di comprendersi?
Le parole sono ambigue (proprio per questo lo scrittore deve essere preciso): terribili nella vita, perfette per la letteratura. Da questo assunto nasce tutto il resto. Possiamo nominare ogni cosa, eppure la cosa sembra sempre non colta pienamente, la parola sembra inadeguata a contenerla. Nominando una cosa la parola non si avvicina a quella cosa, ma soltanto a se stessa. Facciamo un esempio stupido: se dico “sedia”, intendo evidentemente nominare una “sedia”. Eppure restiamo disancorati, imprigionati in un’astrattezza artificiale: che tipo di sedia è, in quale contesto si trova, da chi è usata? Per dire tutto questo avremo bisogno di molte altre parole e così immetteremo molte altre ambiguità. La letteratura potrebbe anche essere definita così: un’infinita spiegazione fallita. Certi la fanno finita il prima possibile e scrivono racconti. Io mi ritengo uno scrittore di racconti anche e forse soprattutto quando scrivo romanzi. È nel romanzo che il mio essere scrittore di racconti si palesa con più forza, quando creo cioè delle storie sbalzate e perfino autosufficienti all’interno di narrazioni che si vorrebbero scorressero fluide dall’inizio alla fine, un capitolo alla volta, agevolando il meccanismo del turn page.
Molti tuoi personaggi sono artisti o scrittori, ma la fede verso il riscatto dell’arte nella tua scrittura è continuamente oltraggiata, l’entusiasmo generato dal richiamo della vocazione artistica è spesso spento dal persistere della consapevolezza che l’eternità promessa dalla letteratura non sottrarrà lo scrittore alla disperazione, alla vecchiaia e alla morte, e che la letteratura stessa sembra declinare verso la sua fine. E tu, la pensi come i tuoi personaggi? Da che specola guardi a te stesso e al modo letterario?
Innanzitutto mi preme dire che la letteratura è il luogo della contraddizione, per cui è bello avere fede e al contempo essere disillusi. Viviamo in un momento storico di forte polarizzazione dove il pensiero è stato dismesso a favore del ben più redditizio e controllabile tifo. Su ciascuna cosa si battaglia e si rivaleggia ma nella maggior parte dei casi sono prese di posizione sterili, funzionali al potere. Non si arriva mai a una sintesi perché la sintesi sottenderebbe, appunto, un discorso che prenda in considerazione non solo la mia ragione, ma anche quella degli altri. In questo senso, nel senso cioè dell’allenamento al ragionare, la contraddizione è essenziale, è un esercizio vivificante. Gli scrittori in crisi dei miei libri sono smentiti dalla mia stessa prolificità oppure la mia prolificità è smentita dagli artisti in crisi dei miei libri? Non importa rispondere, la cosa importante è prendere coscienza del dubbio, del paradosso, dell’enigma.
Credi che nella battaglia tra intrattenimento e letteratura abbia facile gioco l’intrattenimento perché pialla le contradizioni, edulcora la realtà e offre risposte rassicuranti e, appunto, polarizzate? O è una questione di forma? I lettori si sono assuefatti alla deflazione stilistica, alle scritture piane ed emotive?
Più che altro mi dicono che i lettori sono finiti. Si leggono a vicenda sui social network, le vite virtuali sono diventate più interessanti delle vite immaginarie, e in questo senso sarebbe interessante mettere in rapporto virtualità e immaginazione, coglierne le differenze. La virtualità come scadimento dell’immaginazione. L’intrattenimento mi annoia, ma io non faccio statistica. La letteratura nasce da una serie d’infrazioni, l’intrattenimento declinato in generi specifici (spesso mischiati tra loro come cocktail scadenti) invece offre sia a chi scrive sia a chi legge una ricetta sempre uguale. Così c’è stasi delle forme, mass market, consumismo letterario, fast book. Non sono scrittore da happy end. Neanche nelle interviste.
