La ribelle di Giorgio Van Straten

La ribelle di Giorgio Van Straten

Recensione di Alessio Barettini. In copertina: “La ribelle. Vita straordinaria di Nada Parri” di Giorgio Van Straten, edizioni Laterza

Storia e letteratura sono sorelle che continuano a fruttificare, nonostante con il passare degli anni cambino i metodi, gli sguardi, le prospettive, ma forse non le finalità. Giorgio Van Straten spiega, nel prologo di questo libro, di essere rimasto colpito dalla figura storica di Nada Parri dopo averne letto in Il buon tedesco, di Carlo Greppi, libro dedicato ai disertori, che cita, fra gli altri, Hermann Wilkens. I due ebbero una relazione.

La ribelle è dunque una biografia che si affaccia subito su un problema: le informazioni reperibili non sono molte. Così Van Straten racconta la sua stessa ricerca, e il libro appare nel suo farsi. Entriamo nel laboratorio dello scrittore, osserviamo il suo modo di comporre, le tracce che ha seguito per portarci dentro la vita e le scelte di Nada Parri, partigiana.

A Marina di Carrara, nel 1944, Nada ha 21 anni e una figlia, Ambretta, e un marito, Bruno, che adesso è in guerra e che crede nel regime. Nada non ci crede, e questo è solo il primo dei tanti punti contradditori della sua vita. L’incontro con Hermann è il secondo. Il libro alterna capitoli narrativi ad altri in cui l’autore spiega ai lettori, partendo dalla domanda “perché l’interesse per questa storia?”, il metodo scelto per raccontare la vita di Nada. Entra dunque nel libro il ruolo della soggettività, e non si tratta di un vezzo, ma di un’impostazione che l’autore aveva analizzato nella sua precedente uscita, un saggio uscito per Laterza nel 2023, Invasione di campo. Quando la letteratura incontra la storia.

Qui il ragionamento muoveva da Primo Levi e Beppe Fenoglio, esemplari nel dimostrare come sia la storia, sia la letteratura, hanno in fondo il comune obiettivo di restituire dignità alle memorie dei singoli. In altre parole la volontà di Van Straten è quella di costruire un romanzo che, partendo dalla vita di una persona, non sia soltanto l’esemplarità di donne, partigiani e disertori, ma la necessità di raccontare quella storia, ma senza escludere la soggettività di Nada Parri, e portare questo metodo fino a includere anche sé stesso: la soggettività dello storico non va nascosta, le emozioni hanno la loro dignità.

Come in Las Meninas Velázquez mostrava sé stesso creando così infinite connessioni che restituiscono uno spazio autonomo all’autore e allo spettatore, non superiore e non inferiore a nessuno dei personaggi presenti. Quello che dunque emerge è un racconto che incrocia dati con deduzioni che Van Straten affronta con delicatezza ma con la seria volontà di non lasciar nulla al caso, come se avesse una missione da compiere.

Ma Nadežda era il nome della moglie di Lenin e all’inizio mi è sembrato più probabile che un vetraio comunista negli anni in cui il fascismo stava prendendo il potere (la marcia su Roma è di soli tre mesi prima, i giochi non sembrano già fatti) avesse scelto per la figlia un nome che richiamava la rivoluzione russa. Dunque, Nada, per segnare un’identità. (p.23)

Detective della Storia, Van Straten mostra fotografie, costruisce ipotesi, intreccia i dati a sua disposizione perché il gioco si compia, ovvero un racconto uniforme della vita e della famiglia di Nada Parri, e quello che lentamente compare alla vista, dopo l’unione delle varie tessere del mosaico, è che la vita di Nada è costretta a cambiare molte volte. A comporre il disegno di questa donna forte è fondamentale per l’autore l’aiuto della figlia Ambretta, che incontra su Zoom durante la stesura del libro, che a sua volta segue le fasi della vita di Nada, l’incontro con il marito, il matrimonio, la sua solitudine (Bruno sceglie di arruolarsi, vittima della figura del fratello maggiore e della volontà del padre, e rimarrà lontano da casa fino al termine della guerra), l’incontro con Hermann. Ogni dettaglio appare importante per una ricostruzione seria e significativa.

Tutte le lettere e i biglietti che si scambiarono in quei primi mesi, come ho già detto, sono scritti in tedesco. E questo è davvero un mistero per me, un altro punto che mi sconcerta: Nada a scuola aveva studiato francese e mi sembra impossibile che fosse immediatamente in grado di scrivere in una lingua difficile come quella. Dunque? Qualcuno l’aiutava? (p. 60)

E poi la ribellione al nazifascismo, che da necessità si fa ideologia, da istinto consapevolezza, da reazione a strategia controllata: l’ingresso nella Resistenza. La narrazione in La Ribelle appare incerta, claudicante, ma è ancora l’autore stesso a intervenire a questo determinante riguardo:

Quella complessa serie di eventi e di scelte individuali che produsse la Resistenza non aveva la linearità di un’equazione matematica. Si andava avanti e indietro, si partiva in una direzione e poi si scartava improvvisamente di lato. Ecco la lezione che dovevo imparare. (…) La storia è qualcosa che ti artiglia i piedi e ti porta via con sé. (p.86)

Del resto non è stato facile per nessuno, tanto più che Hermann è tedesco e Nada è una donna, e la Resistenza aveva le sue regole e le sue necessità, che erano uomini che vivevano un certo tempo storico e una data situazione.

Mendelsohn, Sebald, Modiano: è in questa scia che si inserisce La ribelle, un romanzo che nasce con un obiettivo che si compone passo passo: dare forma a una memoria che negli anni è stata travisata, strumentalizzata, mistificata, decontestualizzata. Lo spirito che Van Straten reputa necessario perseguire è appunto questo, comune ai grandi romanzieri citati e alle aspettative dei protagonisti di quell’epoca.

Così la seconda parte del libro, con la nascita di Elisabetta, figlia di Nada e Hermann, il ritorno di Bruno e la separazione, l’allontanamento di Hermann dopo la guerra (impossibile che un tedesco si integrasse, seppur partigiano), offrono al bisogno di raccontare questa storia l’occasione di concludersi. Bisogno che era stato della stessa Nada, che aveva pubblicato un libro di memorie dopo aver frequentato un corso di autobiografia, scontrandosi con la scoperta che la sua storia era anche un pezzo della storia d’Italia, e quindi con la paura di non essere capita, la vergogna di essere fraintesa, il timore di essere giudicata. In questo senso la funzione dell’autore, di ridare dignità a una storia, restituire vita a una memoria, è perfettamente rispettata. A rimanere sospese, forse, sono le sue aspettative.

… anche noi, come i partigiani del 1944, avevamo delle grandi aspettative, certamente assai meno giustificate rispetto a quelle di chi aveva combattuto, rischiato la vita, contribuito ad abbattere un regime, ma ugualmente forti. Le aspettative, infatti, si creano in modo del tutto inaspettato, sono fantasmi che vagano nell’aria e si condensano, come fiati nel freddo, sorprendendo anche chi li trova dentro di sé. (…) Quando le cose iniziano a cambiare è impossibile che qualcosa ne resti escluso. Così pensavamo. Ma avevamo torto. (p.201)

 

 

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