Angelo Sturiale: Metamorfosi testuali sulla sua opera

Articolo di Rocco Giudice. Le foto usate nell’articolo sono opere di Angelo Sturiale, fornite dall’autore
Difficile ricondurre a un modulo di base o archetipo “trasversale” il lavoro di Angelo Sturiale fra pittura, musica, poesia. Del resto, a dispensarcene è il carattere stesso del suo impegno, in cui gli ambiti più diversi, nonché convivere in tre nicchie più o meno contigue, interagiscono o si riflettono nel vissuto, potremmo dire, biologico (detto a scorno di ogni operatore di sistema algoritmico) della persona e titolare dell’opera.
Forse, una formula potrebbe offrirla la nozione – pur generica, come è inevitabile – di “Horror Vacui” (un brano di musica elettronica composto da Angelo Sturiale: brano disponibile all’ascolto, con il video della coreografia di Giuliana Patti, sul sito web dell’autore insieme a altri suoi brani e performance, al seguente hyperlink: https://seibutsuart.blogspot.com).
Questo impulso naturale bio-meccanico, da semplice reazione irriflessa va tradotta in elaborazione culturale, cioè, in un contenuto estetico, quand’anche assecondandone le variazioni morfologiche: estendere a diverse forme di espressione la necessità, in ognuna di esse, di andare oltre gli statuti che ne delimitano il campo di intervento e di validazione. Anche se pittura, musica, poesia rimangono attività autonome, presentate in momenti distinti, ma riconducibili a una unità funzionale e dinamica, al di là delle rispettive rubriche per indici tassonomici. Un dinamismo tendenzialmente diasporico, in cui non c’è gerarchia o passaggio che scandisca la progressione o una continuità fra le arti.
Sovrapposizione, semmai, che Sturiale rinviene nelle retrovie o nella flagranza di un mondo di elementi, segmenti, segni, forme, embrioni la cui vitalità non è legata a una struttura o un’altra. Al loro interno ritroviamo lo stesso processo: la tensione a superare e dunque, a infrangere, per ampliarne il dominio, i limiti statutari e i condizionamenti categoriali (la distinzione fra crome, cromie e cromosomi; fra enzimi e engrammi e fra suoni e fonemi come fra caratteri genetici e alfabetici, fra materia organica e inorganica, la vita essendo un anello della catena dell’Essere, più solida e più lunga della catena di amminoacidi): in ultimo, fra testo pittorico, musicale e verbale. Un “salto quantico” che estende il continuum procedendo per disconnessioni, non solo per simmetrie; per analogie, non necessariamente per omologie fra i diversi ambiti artistici.
Questa correlazione può spiegare equivoci o abusi dell’interpretazione: legittimati, peraltro, anche da predilezioni personali o deformazioni professionali dei critici di lungo corso. Comprensibile anche come cimentarsi in attività così esigenti, musica pittura letteratura, susciti perlomeno diffidenza e preclusioni corporative in chi si candidi o consacri a uno solo di questi allori. Malgrado questo, non credo si possa etichettare come “artista multimediale” chi si misura con tre aree, distinte, ma non inseparabili, della plasticità creativa del cervello.
Sarà probabile che una sorta di sintesi organica, di unione ipostatica a denominazione d’origine biologica ponga problemi che una simulazione/contraffazione algoritmica ci risparmierebbe. Questo non sarebbe, d’altra parte, un bell’acquisto, fuori della giurisdizione utilitaristica: il senso di superiorità sul simile ne uscirà tranquillizzato e corroborato, ma sarebbe la soluzione a un falso problema etico, laddove la minaccia da scongiurare è una intelligenza non organica (non che l’ibrida dia più affidamento) cui addossare le responsabilità di una coscienza che non possiede né può esserle delegata.
In un’occasione (si presentava “Canzoniere”, Le farfalle, 2024, l’ultimo libro di Angelo Sturiale: poesie, diversamente dalle prose di “Catalogo d’amore”, del 2016, sempre per Le farfalle), la poesia di Sturiale fu gratificata come prossima alla prosa e perfino (ma non vorrei ricordare male), a ridosso della narrazione, anche se non era chiaro in che senso, dal momento che i suoi libri di poesia non presentano una trama di fatti, una serie di eventi che non siano le date, al massimo, a scandire, provvedendovi un ordine. (Mentre “Catalogo d’amore”, che potrebbe essere un romanzo epistolare o un diario, è privo di date: segnate, invece, in capo a ogni poesia di “Finestra”, Algra, 2021).
Il filo della scrittura non incruna episodi, ma tesse un ordito come fa il tempo, modello oltreché sostrato indispensabile. Questo, anche se leggiamo: “Le parole tra loro hanno sequenze, hanno un prima e un dopo. E tu invece mi accadi dappertutto” (cfr. 24 maggio 2012, in “Tempeste di te”, Algra, 2015). Ma quello che le poesie di Sturiale apprestano non è nulla che sia suscettibile di letture storiche, sociologiche o ideologiche: a meno che la poesia non meritasse uno slittamento di rango o un passaggio di categoria per la ragion pratica di un verso inconsuetamente disteso.
Lunghe catene di parole, i versi di Sturiale sembrano volersi sottrarre ai vincoli che la catena significante pone a esse e a ciò che sta oltre di esse: presenza, ombra del desiderio da sequenziare in un movimento di fuga dalla lingua, dai protocolli letterari in uso inveterato o up to date, la sua poesia sembra interpretare il rimbaudiano deragliamento ragionato dei sensi nello sconfinare dei versi (e dei sensi) in un inseguimento della presenza che la spinge fino alle estreme e sia pure inafferrabili contingenze metriche.
Non è il caso di impaniarci nell’annosa questione su cosa intendere per poesia e cos’è la prosa, poesie in prosa, prosa ritmica, ecc… Ma, per es., in “Angelo capovolto”, la poesia di apertura di “Canzoniere”, troviamo una sequela di novenari, decasillabi e settenari doppi, di cui si allega qualche esempio di seguito: “E dalle nubi capienti e imbiancate di piombo,/ dal frastuono di bianco e di nero che delinea il tuo occhio,/dove mai te ne vai coi fortissimi e i piani che schiacci/e nobiliti col tuo tocco di ali? (…). Dove vai con quel manto che striscia e che graffia, tra le corde di fiumi e /colline intrecciate alle piume di penne, alle penne d’inchiostro con cui tracci e disegni senza alcun orizzonte? Con le note e i tuoi segni tra gli accordi spezzati, le tue/ dita e gli incastri,” ecc…
Senza dire di una poesia in “Lupt Aghê”, “lingua” il cui conio si deve allo stesso di Sturiale come corrispettivo glottologico del suo sistema di notazione musicale. Una partitura per analogia di cadenze ritmiche e suggestioni foniche, vocalizzi di effusione dadaista “… albêrs faghên stimpû. Ipâ tiprôn gorâda, stîs zintâ…”
Nessuna chiusura ermetica, fosse pure in senso ludico, pertanto: al contrario, una tensione alla totalità annunciata fin dai titoli di libri e opere di Angelo Sturiale: “Catalogo d’amore”, “Finestra”, “Tempeste di te”, “Grande atlante dei gioiosi amanti”, fino a “Canzoniere”, in cui il verso, dilatato a una pànica remissione al mondo, non dimentica figure dell’infanzia dell’autore, nella prima parte: mentre la seconda parte vede il testo accompagnare (a distanza) le musiche composte da Sturiale, in un dialogo eterodosso e denso di rimandi, di feedback intrecciati fra tradizione, compresa quella asiatica, da un lato e avanguardia, dall’altro, da John Cage e Karlheinz Stockhausen a Iannis Xenakis e Mauricio Kagel.
“Penna e carta, note e pentagrammi/estesi a grafie (…) Mi definisco e contengo solo nel tracciato dell’/inchiostro. Attraverso il suo movimento in uno spazio/senza geografie, solo con carta bianca o nero cielo” (Settembre 2011, Via Pantano, Catania; in “Tempeste di te”, Algra editore, 2015, pag. 35). Si comprende che una poetica così lucidamente enunciata si affidi a una versificazione che si distende a coprire la superficie della pagina come pure a ridurre la distanza con la prosa. Una poesia cui inside la forma in senso anche propriamente visivo, dunque, per quell’”horror vacui” cui l’ampia apertura alare del verso si sovrappone, coprendo con la nebulosa musicale dei segni verbali la pagina, grafica onomatopea cartacea del silenzio appostato ai margini.
Ma non c’è, non può esserci alcuna contrapposizione dove una giostra di sinestesie, un circuito di forme espressive non decide della grazia manifestata anche nell’acconsentire a quanto è dato: la responsabilità e – tutt’altro che leggera, per le ali di cui necessita – un’”anima-farfalla”, per riprendere il titolo poetico di una pittura di Angelo Sturiale, che ne ha offerto una versione musicale.
La parola ritrovata come argine a una presenza perduta, a una assenza di cui restituire i confini; il suono come estensione o contrazione della nota; il segno come codice genetico della forma: in questa proiezione o introiezione dei propri paradigmi diremo che danno tutti voce al mondo cui appartengono, allo spazio – foglio, pagina digitale, file, tela, spartito, carta: in una circolarità ermeneutica in atto – in cui esistono. Il rapporto tra forme grafiche, pittoriche, verbali non è di natura materiale, ma fisica: ma fabulatoria e non fisica è la dimensione in cui si collocano grafismi e colori, suoni e parole.
In questo spazio privo di profondità non ci può essere tempo, movimento, sviluppo, storia. Tutto è dato in unica soluzione, nella sincronia fuori del tempo, in un’equidistanza che non postula lo spazio, che non dipende da una forma, disincarnata dal contesto, né da una materia, che non è solo un sostrato che offra all’idea un mezzo per concretizzarsi nel gesto e una superficie su cui riversarsi, ma l’esito di una scelta e di un gesto, senza discriminare se pittorico, musicale, letterario.
Il sistema di notazione musicale che Angelo Sturiale ha inventato per una musica fuori dal suono cosi da dar voce alla lingua degli “strumenti” (utensili domestici di tutti i giorni: piatti, bicchieri, bottiglie, pentole, ecc…) trascritta nelle sue partiture, apprezzate da György Lygeti (“esoterico e stravagante” definì uno dei brani con cui Sturiale partecipò a un concorso internazionale) e da Sylvano Bussotti, pone il segno aniconico come carattere di scrittura alfabetica tanto quanto pittografica: la sillaba visiva come eco grafica di una cellula sonora.
Corpo o atomo, un continente microscopico o una ameba come terra incognita, una lingua di una sola parola o di un solo fonema, una pittura di un solo grafismo, una musica di una sola nota.
Ciascun elemento, si tratti di un testo verbale, musicale o pittorico, si fa portavoce di una propria vicenda ‘personale’: narrato e narrante insieme, coincidono, articolando in un discorso diretto libero in prima persona una testimonianza di sé, senza intermediari e senza destinatari predeterminati. Essenziale è il segno come luce a se stesso, prima e di là di ogni distinzione fra dato percettivo e segno che lo sostituisce, quasi che ogni singolo segno, grafico sonoro o verbale, fosse delegato a rappresentare qualcosa in modo da esserne legittimato. Una distinzione così dualistica non è data, nei lavori di Angelo Sturiale: l’unità è indissolubile, quello che vediamo ascoltiamo o leggiamo sussiste e accade nell’atto stesso in cui è data l’immagine sonora visiva o verbale.
Ma nell’assumere una configurazione testuale, i materiali che costituiscono le strutture di base e il supporto fisico delle realizzazioni concrete ci si rivelano, più ancora che articolazioni alfabetiche possibili, la mappa astrale e ipogea di una deriva sinestetica da osservare, leggere, ascoltare, saltando compartimentazioni disciplinari che afferiscono, almeno in prima istanza, a sfere sensoriali privilegiate.
Pensiamo, in particolare, a una pittura di grandi dimensioni di Angelo Sturiale, “Grande atlante dei gioiosi amanti”: non la riduzione in scala di uno stato di beatitudine, ma una ricognizione che dà performativamente conto della gioia degli amanti attraverso la gioia del tracciare la geografia di un poema visivo, come accordo (sinfonico, viene da dire: polifonico) di grafismi e cromatismi.
I segni, sia alfabetici che pittorici e musicali, sono le impronte digitali e vocali del verbo amorosamente fatto carne, in una allocuzione lirica gioiosa di un amore di cui, finché è vissuto, non può darsi storia, ma somiglia a un balbettio, a uno “jubelo del core”, a un diapason più forte di ogni riduzione a una logica fosse pure di un racconto o di un trattato che registri, educhi, formi devotamente: gli amanti non hanno nulla da insegnare, nulla da dire sulle proprie emozioni come sull’uso felice delle stesse.
L’amore, come tutta l’arte, non può essere insegnato – noi non siamo liberi di scegliere chi siamo liberi di amare, scriveva Wystan Hugh Auden, esprimendo questa situazione paradossale di reattività, di iniziativa subìta rispetto a cui siamo fin dall’inizio e per sempre in debito e in perdita.
