Racconto dell’inquieto ritorno
Racconto e foto di Martino Ciano
Questa stanza è il mio cimitero, la porta di ingresso è lo specchio in cui mi rifletto per non sparire, per non dissolvermi. È impressa nel vetro la mia immagine, simulacro immobile che non ha il coraggio di voltarsi verso la ragazza dalla pelle diafana che si è incisa una data, forse di nascita, sul seno sinistro, e che ha lievemente tagliato l’epidermide del suo polso affinché solo un rivolo di sangue, sottile come un ago, esca e si manifesti per la mia e la sua redenzione.
Profetessa dalla vulva rasata, siano le tue labbra sporgenti petali creatori di allucinazione. È ai suoi piedi il serpente che interroga la vita, mentre lui che sta dall’altra parte dello specchio, lui di cui io sono solo il simulacro, morde una mela e continua a specchiarsi. Nudo.
Mastica. La sua bocca macina e assapora, i suoi muscoli facciali non si muovono alla stessa maniera sul mio volto. Dovrei essere come un burattino tra le sue mani; dovrei compiere tutte le sue azioni; dovrei essere solo il suo riflesso, qualcosa che non ha volontà alcuna. Invece, ci inganniamo a vicenda; simuliamo disinteresse l’uno verso l’altro. Alle sue spalle lui ha solo un letto a due piazze; non v’è donna, non v’è spirito tra le pareti in cui lui agisce e vive. Io e lui, mondi diversi, ma stesse gabbie.
Sono nudo e lei, dietro di me, sdraiata e con le gambe divaricate, ansima una ninnananna, geme e sussurra una risata. E sento nel mio ventre muoversi la vita. Trema l’addome, si ingrossa l’inguine, mi sento soffocare, ho bisogno di partorire, forse di espellere. E lui, me stesso dall’altra parte dello specchio, continua a mangiare lentamente la sua mela, a mordere il frutto della vita, della sapienza, della fallace conoscenza. E non conosco io la mia volontà, mentre il dolore al basso ventre aumenta; spalanco la bocca, si apre come una tenaglia. Un canto di cicale si impossessa della stanza. Io emetto un suono simile al ronzio di una zanzara.
Ho il coraggio di voltarmi; è sparita la ragazza che era alle mie spalle. Sul letto è rimasto un manichino con il petto piatto e tutti gli orifizi sigillati con la ceralacca. E davanti a me non c’è lo specchio, né più il riflesso dell’uomo che mangia una mela. Lui è in me, ricongiunto, unito alla mia pelle.
Abbasso la testa. Conati di vomito; non esce nulla dalla bocca. Dolore alla gola; non riesco a parlare. Sono un verso e una poesia intera, lo schianto al suolo e il tonfo secco delle ossa che si spezzano, la prima volta tra le gambe di qualcuna e il primo orgasmo raggiunto in compagnia, il peccato della carne e la maledizione che cadde su Onan.
In carne e ossa lei riappare come un lampo. Ora è davanti a me e mi solleva il capo, prendendomi dai capelli. Il mio viso davanti al suo viso, i suoi occhi scarlatti davanti ai miei occhi lucidi e appannati dal velo dello stordimento. Le orecchie le vibrano come ali di farfalla. È nuda, lei è sempre così; dal suo polso ancora fluisce il rigagnolo di sangue.
“Sei la vita e tutto ciò che le ruota intorno. Sei nella realtà che percepisci e dalla quale fuggi; sei la nudità e il capro espiatorio”. Dice lei sussurrando con la sua voce un po’ squillante e un po’ tremante. E con le sue unghie laccate di viola mi accarezza il viso, scivolando con la mano lungo la guancia, ridandomi fiato e gettandomi in un tepore sereno e paralizzante. Lei succhia la mia volontà. Privo di forze, in suo possesso, abbandono il capo e mi accascio a terra. Vedo le labbra della sua vulva, pendono e si muovono come foglie nella brezza.
Il canto del gallo proviene da est, noi restiamo così: io accasciato e con lo sguardo tra le sue cosce, lei carponi che mi accarezza la nuca. “Apriti”, dice decisa, e mi sento tirato via da mani fredde che con movimenti chirurgici mi spalancano le porte della vita. Rinasco, mi guardo indietro. Sono altrove, sono un fagotto tra le braccia di una donna in camice bianco. Vorrei parlare, ma emetto solo vagiti. Vorrei tornare indietro, ma ho già dimenticato dov’ero.
“Dimentica tutto ciò che è stato”, comanda lei, con la sua voce che sembra uscita dalle tende che oscurano la stanza nella quale mi trovo. Rispondo con un vagito: un prolungato strillo di vita e di terrore. La bocca sul capezzolo del seno di mia madre; una voce, un intreccio di suoni di arpa e pianoforte provengono dalla stanza del mondo lontano, dal quale sono stato scacciato, di cui ricordo le ombre sulle pareti.
Tutto ciò ritorna mentre succhio il latte materno,
mentre vomito il latte materno,
mentre da questa Terra sono spariti madre e padre.
Eterno ritorno.
Inquieto dono.
La volontà di vita,
la dimenticanza del trapasso.
Essere.
Cosa?