Incipit
Racconto di Antonio Danise. Foto di Martino Ciano
… e cosa penseranno le persone a vederti così, in mutande, stravaccato sul divano a leggere, e io, che non volevo pensarci, mi ritrovai improvvisamente nella situazione di dovermi soffermare a riflettere, ragionare su quello che mi aveva appena fatto notare, non sapevo, non avevo idea di cosa fare, come comportarmi, vestirmi sarebbe stata una sconfitta in un’ipotetica battaglia o comunque una gara, dargliela vinta, ammettere che sì, stare sdraiato nudo come un verme sul divano per gran parte del giorno non era proprio il massimo, anche se il tempo lo passavo leggendo e arricchendo il patrimonio da cui speravo di ricavare un giorno qualcosa di buono, qualcosa che mi potesse permettere di tirare avanti con una certa regolarità, e a dire il vero ci provavo anche, non stavo solo a leggere, provavo a buttare giù qualcosa, l’abbozzo di una storia, avevo già iniziato centinaia di racconti, migliaia forse, solo l’inizio, una prima parte, ne ho tanti di incipit, più o meno lunghi, a seconda della durata che mi concedeva l’abbrivio, poi, quando finivo la carica iniziale, che scrivevo quasi in apnea, per non perdere nulla, per non compromettere l’ispirazione del momento, per non dimenticare tutto, mettevo malinconicamente carta e penna di lato con la speranza, quasi sempre frustrata, di riprendere non appena mi fosse ritornata l’ispirazione, oppure potevo continuare a stare così, a leggere, fin quando arrivavo alla fine del libro, o di un capitolo, o fin quando resistevo, prima di chiudere gli occhi quasi collassato, per aver letto le ultime righe o forse le ultime pagine, avrei verificato il giorno dopo, alla ripresa della lettura, ancora in apnea, senza rendermi conto di cosa leggevo, era un passare gli occhi semichiusi sulle pagine con la mente chissà da quanto scollegata, quel maledetto vizio di scrivere senza prendere fiato e soprattutto senza rivedere ciò che avevo scritto, mi aveva fatto collezionare innumerevoli bozze di racconti, non so se anche di romanzi, e più di una volta mi sono ripromesso di mettere un po’ d’ordine tra le mie carte e l’ordine poteva significare provare a dare un seguito a quegli accenni, a quegli abbozzi di storie che chissà com’erano nate e soprattutto chissà mai come sarebbero andate a finire, avrei potuto inventare tutto ma mi sembrava di tradire lo spirito iniziale che mi aveva portato a scrivere quelle cose ma allo stesso tempo, dopo ripetute riflessioni, stabilivo che dovevo darmi una mossa e le scelte erano due, provare a dare un seguito completando i racconti oppure buttare via tutto, non fare più affidamento a quegli aborti, che per anni avevo considerato un discreto patrimonio da cui partire per la mia carriera di scrittore, ed entrambe le alternative erano argomenti per altri racconti o romanzi che questa volta però mi auguravo potessero arrivare a una conclusione, e così alla fine decisi che dovevo proseguire, quando si fa una scelta bisogna portarla avanti fino in fondo, smettere, rinunciare, voleva dire consegnarmi nelle mani delle autorità, sentivo di essere diventato un delinquente abituale che, dopo una vita vissuta nell’illegalità, rinnegava anni di rapine in banca, assalti a furgoni portavalori, anche omicidi, ma come semplici incidenti di percorso, mai programmati, e non mi sentivo di farlo, volevo continuare, andare avanti, trovare uno sbocco a quella situazione di stallo, una soluzione l’avrei trovata, non mi sarei arreso facilmente, tutti quei fogli, li avrei ripresi, forse con l’intenzione di costruire un enorme puzzle, mi aiutavano in questo le tante letture, più libri allo stesso tempo, più mondi in cui entravo senza mai perdere di vista l’obiettivo finale, quello di costruire una realtà che mi potesse dare almeno l’illusione di vivere, a dispetto di quanto mi girava attorno, avrei certo trasformato o trasfigurato persone di mia conoscenza, costruendo un mondo di personaggi familiari, tutti potevano entrarci, senza selezione preliminare, dovevo solo decidere quali ruoli attribuire a ciascuno di loro, capire perché arrivavano certi sogni inattesi, e da dove, non previsti, chiunque poteva entrare a far parte del mondo che stavo costruendo, di più, anche le cose, gli oggetti familiari o anche ciò che vedevo per strada, tutto era buono per un verso, per un racconto, un eterno e immenso diario che stavo ormai compilando, che tenevo da quando avevo memoria, come se la vita, quella reale, esistesse solo per essere rappresentata, semplice oggetto di letteratura, e per ogni storia avevo pronto un titolo, L’uomo in mutande sul divano, L’incipit infinito, Donne di carta, Il fado e altre colonne sonore, tutto già pronto, si trattava solo di sviluppare le intenzioni iniziali e per questo non mi ponevo un termine, anche perché non riuscivo a stabilire in partenza quanto avrei resistito senza respirare quando mi accingevo a raccontare una nuova storia, e non era un particolare irrilevante o di poco conto perché tutto dipendeva da quell’aspetto, il respiro è importante nella scrittura e, questo un altro titolo a cui pensavo da un po’, mi frullava in testa senza riuscire a rendermene conto, ma quando meno te lo aspetti, ecco che appare come un colpo di vento inatteso che viene a squarciare la pesante cappa di afa che, in certi momenti, sembra soffocare la città d’estate, Il respiro della città, ed era già tutto pronto, mi mancava il tempo, pensai rattristandomi, ma poi mi dissi che non c’era fretta, dovevo solo iniziare, riprendevo vecchi attacchi di racconti, li rifacevo miei, come se mi appartenessero, episodi del passato che avevo dimenticato, non si può ricordare tutto, anche le cose più belle, quelle che lasciano un segno, è solo per un tempo limitato, certo, non scompaiono del tutto, perché a un certo punto della vita appaiono da dietro una tenda, e sono storie di tradimenti, momenti vissuti intensamente, senza che ci si renda conto nel momento stesso in cui si vivono, quante volte ho sperato che uscire la sera, quando l’estate stava per finire, scendere in strada per un motivo qualunque, si trasformasse nell’inizio di una nuova vita, un ricominciare in un mondo nuovo, come se stessi per entrare in un sogno, non vedevo confini, non ben delineati, non certi, tutto sfumava in possibili partenze o meglio trasformazioni, sentivo la necessità di cambiare qualcosa nella mia vita, non sapevo cosa, e allora, uscire per buttare la spazzatura o andare al bar per un caffè, una scusa qualunque, come se avessi bisogno di una giustificazione, poteva rappresentare davvero l’inizio di un percorso che accettavo di intraprendere, anche se non sapevo dove mi avrebbe condotto, non me ne curavo, ascoltavo il battere della signora del piano di sopra, che richiamava l’attenzione, ma non ero per niente interessato a lei, non mi era mai piaciuta, con quella voce stridula che quando parlava sembrava una gallina stonata, e quando salutava, Buongiorno caro, come va, oggi?, equivaleva a chiedermi se ero libero da impegni e potevo darle una mano a fare quei lavoretti in cantina che ormai rimandava da anni, cosicché potesse risparmiare un po’ di soldi, in cambio di qualche favore o chissà, nei suoi pensieri, anche di qualche prestazione, ma ve l’immaginate, proprio sul più bello, a sghignazzare goduriosa, nemmeno avesse fatto un uovo d’oro, coccodè, coccodè, no, proprio non è il caso, rinunciai a questo pensiero, girai l’angolo dell’edificio, il vento mi spolverò in faccia una zaffata di fogna, arrivata da quegli enormi buchi che da mesi ormai lasciavano intravedere le interiora del marciapiedi, un giorno o l’altro il comune dovrà pur decidersi a tapparli, era anche per questo che cominciavo a mal sopportare quella zona, avevo bisogno di cambiare aria, di evadere, in qualunque modo, e l’avrei fatto se solo, ma no, basta, di aria non me ne è rimasta più tanta ormai, ho finito l’ispirazione se pure c’è mai stata, chissà, e forse è meglio che me ne resti a casa a leggere e sperare che anche questo giorno passi senza chiedermi più cosa starà pensando la gente a vedermi così, in mutande, stravaccato sul divano a scrivere incipit infiniti.