Incidente dell’essere e della percezione
Racconto e foto di Martino Ciano
Lo spirito che guida l’Universo, una volontà affamata di vita, ti tentava dall’alto della sua invisibilità. Solleticava il tuo intimo, risvegliava l’istinto di apparire tra gli altri e dire “io sono perché ci sono”. Volevi fare vedere come gli arti del tuo corpo si muovevano, come la tua bocca emetteva e modulava suoni, come il tuo naso inalava gli odori, come le tue orecchie erano attente ad accogliere il rumore prodotto dagli altri, così come facevano i tuoi occhi con le forme, i colori e i corpi.
E poi mangiare… cosa c’era di meglio dell’assaporare, dell’ingerire qualcosa che prima di giungere in bocca aveva altri contorni che tu, proprio tu, solo tu, con lingua e denti avevi modificato. E mica sarebbero finite lì le modifiche.
“Io sono perché ci sono” volevi dirlo sempre, a tutti, solo che poi ci ripensavi e ti chiedevi come avrebbero preso gli altri quella affermazione; d’altronde, analizzandola, ti appariva come una ripetizione inutile. “Se sono, sono anche nel mondo, quindi esisto per me e per tutti quelli che mi vedranno, che mi percepiranno attraverso altri sensi”. La tua mente in quei discorsi ti emetteva un segnale di allarme, una sorta di “che cazzo stai dicendo” che si manifestava in un dolore localizzato nella tempia sinistra. L’attenzione veniva disturbata, la concentrazione che riversavi verso il tuo “essere in qualche posto in cui tu fossi notato” diventava altalenante.
“Ma se tutti devono notare che tu ci sei, allora la sicurezza e la certezza che tu esista te la danno gli altri?”. E questa domanda improvvisa, emessa dalla bocca formatasi nella tempia sinistra che ti faceva male, ti smosse il cervello dirigendoti per altre strade, convincendoti che nel momento in cui si è soli, in disparte, chiusi in camera, o mentre attraversiamo un luogo deserto, noi non esistiamo per gli altri, ma solo per noi. Lottiamo per esserci, ma forse, non esserci è la migliore delle presenze a cui bisognerebbe auspicare. Anche se attraversiamo il pensiero di qualcuno siamo solo un’immagine sfocata, una voce dall’oltretomba.
Eppure, in quel momento, sentivi di esistere anche nella tua solitudine. Percepivi sotto il piede l’acceleratore dell’auto che guidavi; avvertivi tra le mani la gomma ruvida dello sterzo; ascoltavi il rombo del motore che cresceva e decresceva a seconda di come cambiavi le marce. Tu eri lì, su quella strada che tagliava una vallata che si estendeva a perdita d’occhio, come se il limite del mondo fosse stato posto là, dove intravedevi uno spesso strato verde scuro; risultato delle chiome d’albero che il tuo sguardo non riusciva a separare.
Eccoti nel mezzo della sostanza primordiale da cui si sprigiona la vita e la morte, anzi la trasformazione. Mentre il sole era avvolto dall’afa, percepivi la frescura dell’aria condizionata che avevi acceso. Fu in quell’istante che una mosca che si era rifugiata nel tuo abitacolo cominciò a girarti intorno. Eravate due esseri che esistevano l’uno per l’altro. Tu scacciavi la mosca, la mosca si posava sulla tua fronte.
La fastidiosa presenza del prossimo: il suono grave di un clacson alieno, che come il canto di un gallo che segna il momento preciso in cui è avvenuto il tradimento, ti fece trasalire. Come in un sogno vedevi qualcosa di ingombrante che si avvicinava verso di te; manteneva le sue forme sgranate e i contorni frastagliati. Hai vissuto lo schianto, il blocco improvviso dell’aria; ti sei sentito sottovuoto, poi sospeso, e infine hai avvertito uno strappo come se tu fossi stato un cerotto su una ferita.
Infine sei svanito.
Solo il tuo pensiero ha chiesto ancora di essere percepito.