Il quadro

“Il quadro” è un racconto di Luciana De Palma. In copertina: “Disperazione” di Edvard Munch, dipinto del 1894
Più che la penombra mi impressionò il silenzio. La moquette blu e il velluto sulle pareti ovattavano la stanza in cui era stato messo il quadro più importante della mostra. Varcata la soglia tra la quella e la stanza precedente, mi parve di fluttuare. Nel silenzio il mio corpo perse peso, la mia mente disconobbe la cognizione della gravità.
Avevo superato stanze affollate in cui sgomitare per avvicinarsi ai quadri sulle pareti era stata l’unica soluzione. Torcere il busto, allungare il collo, cogliere al volo lo spazio in cui infilarsi. E poi la calca ondeggiante, il brusio continuo, i gruppi in formazione compatta a seguito delle guide, la determinazione di alcuni nel passarmi davanti proprio quando avevo conquistato un’ottima posizione: provocazioni a cui avevo resistito solo ripetendo a me stessa che presto sarei tornata alla mia amata solitudine.
Ecco perché, entrata nella stanza con un quadro solo, mi sembrò una rara e fortuita concessione del destino essere momentaneamente l’unica presenza tra chi era appena uscito e chi sarebbe entrato. Per quanto mi riguardava, il mondo era scomparso. Non era affare mio domandarmi se l’avrei ritrovato, una volta lasciato il palazzo che ospitava la mostra.
Mi sedetti ad un’estremità della panca posta di fronte al muro che reggeva il quadro. Appoggiai le mani sul velluto che ricopriva la seduta. Muovendomi di lato come un granchio, lentamente guadagnai il centro. La luce fioca illuminava la tela e mi aiutava a ignorare tutto il resto: stanza, museo, città, mondo, universo.
Non c’erano ragioni per cui dovessi chiedere conforto alla mente. Avevo bisogno di un’illusione; la trovai esattamente dov’ero. La mia coscienza doveva prestare attenzione solo al quadro per cui ero uscita da casa. Dapprima mi attardai con lo sguardo sulla cornice. Feci compiere agli occhi un paio di giri. Non finsi di ignorare che stavo solo rimandando il momento in cui sarei affondata nell’immagine dipinta.
Conoscevo il quadro, la sua datazione, le tecniche con cui era stato realizzato, i motivi e le suggestioni che avevano ispirato l’artista, ben centotrent’anni prima.
Mi ero preparata, studiando, leggendo, cercando. Niente però avrebbe potuto farmi prevedere la reazione che avrei avuto. In un paesaggio di quiete rurale, bordato da un tramonto di gialli e aranci accennati nella mescolanza di un azzurro che si scioglieva come grani di zucchero in una tazza di tè bollente, due figure erano ferme alla fine di un percorso di assi di legno.
Non c’era nulla in loro che suggerisse una qualche sensazione di turbamento o di contrizione. Quelle figure, palesemente uomini, erano state relegate in uno spazio intangibile; il tempo non li avrebbe scovati, le loro esistenze non sarebbero state toccate. Semplicemente quei due stavano. Distaccati, relitti di una vita in cui essi non avevano più interesse e che perciò non poteva farli soffrire.
Dalla parte opposta, era stato dipinto un uomo dalle fattezze appena accennate. Di lui erano visibili la testa, reclinata in avanti, e il busto. Con estrema difficoltà riuscii a interpretare l’espressione del suo volto: le pennellate grossolane lasciavano molto margine all’immaginazione cosicché qualunque significato attribuito a quella maschera sarebbe stato corretto.
Avendo le palpebre abbassate o chiuse, solo la bocca avrebbe potuto aiutare, ma, realizzata con un unico colpo di colore, pareva più un segno abbozzato per pura casualità. L’uomo indossava una giacca scura che strideva con il placido paesaggio alle sue spalle. Il contrasto era voluto. Così come era stato intenzionale l’aver ritratto le due figure come rami dritti, mentre l’uomo aveva le spalle curve.
Mentre osservavo il dettaglio della schiena piegata in avanti, mi resi conto che anch’io stavo facendo lo stesso. Allora, in balia di una volontà estranea, compiendo uno sforzo che mi sembrò sovrumano, raddrizzai la schiena e abbassai le spalle. La ragione usurpò la mia estasi.
Pensai che quell’uomo, dipinto ad una distanza siderale dagli altri due, non avrebbe potuto farlo. Sarebbe rimasto per sempre con le spalle curve. Niente l’avrebbe liberato dal peso che portava. Ma di cosa si trattava? Da quale angoscia non sarebbe mai riuscito a sgravarsi? Qualcuno avrebbe creduto alla sua pena?
Nel perdurare del silenzio e della solitudine di quella stanza cominciai a tremare. Feci miei i possibili interrogativi di quella figura dipinta. Ero inerme tanto quanto lui impassibile. Nell’assenza di suoni e di corpi fui l’unica a sentire il suo respiro, ad avvertire il dolore sotto le sue palpebre abbassate. Fu terribile lottare contro la tentazione di alzarmi, allungare un braccio e sfiorare con le dita la sua guancia smunta. Feci mia la sua sofferenza: il peso invisibile imposto ad una coscienza all’erta piegava le nostre spalle.
M’incurvai di nuovo, ma questa volta la ragione fu impotente. Restai piegata e vinta. Il vuoto era ovunque. Il silenzio dentro e fuori la tela non era principio di azione, indizio di pace né atto di meditazione. Impossibile attingere ad una riserva di parole per colmare le mancanze. Lo sgomento non avrebbe mai avuto fine.
Piansi le lacrime che quell’uomo dipinto non avrebbe potuto piangere.