Il filo della speranza. La storia dell’arte antica del ricamo
Recensione di Filomena Gagliardi. In Copertina: Guia Risari, Il filo della speranza. Illustrazione di copertina Elisa Talentino, Settenove, Cagli (PU), 2021
L’arte del ricamo è antica: si perde nei miti ed è, nella tradizione comune, declinata prerogativa del femminile. Questa considerazione non vuole sminuire il femminile. Anzi vuole farne il ricettacolo di un progetto che viene alla luce, analogamente al grembo materno da cui proviene il progetto della vita: “Il ricamo, da sempre, è visto come un’attività di donne remissive e pazienti, che obbediscono alla tradizione e in qualche modo la perpetuano. Le ricamatrici sono le sacerdotesse della consuetudine. Con la testa sempre china, i capelli raccolti, gli occhi fissi e le mani operose.
Un esempio di virtù e di sacrificio. Perché una donna che ricama dice addio ai divertimenti e si rinchiude nel focolare domestico, al riparo da occhi e orecchie indiscreti. Ora, qualche ricamatrice che corrispondeva a quest’immagine di passività l’ho incontrata, ma quando ripenso a me, a Filippa…e poi a tutte le altre….mi pare che lo stampo non si adatti per niente alle nostre forme. Nessuna di noi accettava supinamente un ruolo sottomesso, nessuna si sminuiva o accettava le prepotenze con rassegnazione. Eravamo fiere, speranzose, battagliere”.
Finché qualcosa nasce c’è sempre speranza: se si tratta di un ricamo, l’artefice di questa speranza è un filo. Da qui si comprende bene il senso del titolo Il filo della speranza del libro di Guia Risari edito da Settenove nel 2021. Si tratta di una storia narrata in prima persona da Vita (nomen omen), un’anziana ricamatrice che vuole consegnare la sua storia alla nipote lontana: è il 2020, l’annus horribilis del Covid; Vita, rimasta vedova del suo Lele, ha come unico mezzo di comunicazione con i suoi congiunti, il telefono. Attraverso il filo telefonico dialoga con la figlia Pippa, a lei vicina e con la nipote, appunto, che frequenta l’Università a Milano e, a causa delle regole imposte dal lockdown, segue in dad i corsi.
La narrazione è un continuo alternarsi tra piani temporali diversi: il presente e il passato. Il ritorno al passato è favorito sicuramente dalla condizione dell’oggi. Come è successo a molti di noi durante la pandemia, ci siamo ritrovati nelle nostre case con molto tempo a disposizione e spesso in solitudine. Narrare le storie ci è venuto in soccorso. La stessa protagonista, infatti, alle fine della sua scrittura dice: “Ho smosso il mio passato e affidato i miei ricordi a delle pagine che ho messo in una busta. Il plico è partito stamane.
Chissà quando arriverà…Ora che so che Nina le leggerà, mi sento sollevata. Raccontarla questa storia era un dovere per me. In questi giorni, oltre a ricordare, mi sono messa a collezionare notizie. Non solo dell’Italia, ma di paesi vicini e lontani. Improvvisamente – non so bene perché – ma il mondo mi sembra fratello, mi parla da vicino”.
La vicenda è quella che il lettore ha già appreso nelle pagine precedenti di questo volumetto di appena centoventi pagine. Vita (personaggio di fiction) racconta di quando, da giovane, fu presa dalla passione per il ricamo; erano gli anni Settanta e nel suo paese, Santa Caterina Villarmosa, in provincia di Caltanissetta, ben presto si rese conto di non essere l’unica ricamatrice, ma di avere tante colleghe con cui era giusto fare rete. Questo anche su suggerimento dell’uomo che aveva sposato, Lele, una figura maschile moderna e capace di sostenere in tutto e per tutto la propria moglie.
Le lotte delle ricamatrici sono un fatto storico e portarono ad una conquista, forse più formale che sostanziale, eppure significativa rispetto al nulla precedente: “Fu in questo clima di tensione che si svolse il processo del 1973. Quell’anno, in giugno, quasi mille donne manifestarono a Palermo per rivendicare i diritti delle ricamatrici.
La conseguenza fu che venne approvata in Parlamento la legge numero 877 sul lavoro dipendente a domicilio che stabiliva orari di lavoro, una paga oraria e un obbligo di trasparenza nelle transazioni. Ma questa legge, ahimè, cambiò poco la vita delle ricamatrici. Per certi aspetti però convinse alcune, in particolare Filippa Pantano, a emergere dal magma con una cooperativa di ricamatrici: La Rosa Rossa. Rossa come la passione, la combattività e la forza di queste donne”.
Il processo di cui si parla in queste righe ci fu a causa dei soprusi che le donne subivano in quel periodo dovuti anche ai mediatori che non riuscivano a valorizzare il loro lavoro.
Per questo il filo della speranza non ha soltanto solo una valenza legata all’arte del ricamo in quanto tale, ma anche metaforica e metastorica: la speranza è quando Vita prova, seppure con paura, a riprendere a ricamare : “A Pippa, e anche a Nina quando me l’ha chiesto, ho detto che mi è impossibile ricominciare a ricamare, che non ne sono più capace, che per me è stato un lavoro, non uno scherzo. La verità è che nel ricamo è rimasto intrappolato un bel pezzo della mia gioventù e tanti ricordi.
Alcuni di vittorie, altri di sconfitte, sconfitte così amare che è difficile rialzarsi e riprendere. Mi avvicino alla vecchia credenza scura e apro l’ultima anta in basso. Accanto al servizio buono di piatti, c’è una scatola di cartone. Al suo interno filati, aghi, bobine, fuselli, il cuscino del tombolo, numerosi uncinetti e un ricamo cominciato e lasciato a metà. Un fazzoletto con al centro una grande rosa sbocciata.
Potrei riprendere da qui. Quanti anni sono passati? Quarantacinque? Si può riparare il passato con dei fili? Possono le trame costituire le tracce di un sentiero che porta alla felicità? Perché no? Senza mai dircelo, io credo che sia quest’ottimismo di fondo che anima ogni ricamatrice, la convinzione che una piccola, fragile cosa fatta di intrecci possa portare nel mondo – così oscuro, sofferente, difficile, – un momento di sollievo, di meraviglia, di felicità. Mi siedo al tavolo e muovo le mani un po’ arrugginite, ma sempre esperte e mi pare di librarmi in aria, di non avere più peso, di capire tante cose…”
La Speranza è anche il filo della narrazione che tiene uniti passato e presente attraverso il racconto di Vita, il cui intento è di consegnare alle future generazioni (Nina) il senso stesso di una vita ricamata dal desiderio di giustizia: “L’unica saggezza cui mi appello è questa: attendere e custodire le voci dall’altra parte del mare, del mondo, del tempo. E questo che dà senso alla vita, che permette di capire e seguire il filo della speranza. Non è poco”.