Occhio non vede, cuore non duole e speranza salva l’onore
Articolo di Giuseppe Milite. Foto di Martino Ciano
Il significato del termine compassione è: “patire con”. Ovvero, condividere fino al punto di arrivare a sentire il dolore dell’altro. Quindi, fino a prova contraria, è un partecipare al patire dell’altro che solo così, per forza di un’unica accezione, dovrebbe essere vissuto. Un sentimento indiscutibilmente nobile ma anche molto impegnativo da accogliere in sé con sincerità.
Talvolta riusciamo a provarlo con pienezza ma, in genere, solo quando il sofferente ci è vicino, se non vicinissimo. Al contrario, quando il dolore è così tanto, e magari pure di tanti, ma lontano da noi nello spazio, allora il sentire, il vivo percepire, è più difficile se non addirittura impossibile. Ciò è quanto sta avvenendo in questo momento storico dal punto di vista umano e sociale in molteplici luoghi nel mondo. In poche parole, preferiamo non vedere e ignorare intenzionalmente.
Scegliamo di rifuggire. Ci impegniamo, a tal fine, con ogni sotterfugio, per evitare accuratamente che qualche sentimento ci raggiunga. Tanto che per molti di noi, diventati fin troppo “cosa per sé” fino a renderci incalliti pianeto-usuranti, nonché sovralimentati “turbo” consumatori di benessere vacuo, illusorio e fittizio, la compassione è diventata ben altro sentimento. Quanto affermo spesso accade dentro di noi, magari, pur essendo consapevoli della realtà dei fatti, pur essendone, a volte e del tutto, in totale contezza.
Ci rifugiamo nella speranza, che ci autosomministriamo in pillole. Una per ogni prima e un’altra, magari, per ogni dopo quei pasti rigorosamente lauti delle feste, ormai diventati quotidiani. Culliamo così il desiderio che qualcosa, magari un accadimento, oppure intervento umano o divino che sia, cambi in meglio lo stato delle cose.
“D’altronde, la speranza non delude mai”, ci dicono. Io, al contrario, affermo che pur essendo la speranza un tranquillante metafisico indiscutibilmente benefico per la nostra psiche è, sostanzialmente, un adagiarsi ad un amaro o, talvolta, dolce far nulla. Dopo più di duemila anni di lette e vissute soteriologiche attese, mi considero stanco e deluso dalla speranza, perché troppo simile all’indifferenza.
Sono terribilmente incazzato per una cosiddetta virtù che ci induce ad accettare in ozio, troppo spesso, gli eventi più nefasti e crudeli. Chissà che mai, più d’ora, la Speranza incarni il mitico “Timor del futuro”.
Come disse Esiodo…
Ma quella femmina il grande coperchio del doglio dischiuse,
con luttuoso cuore, fra gli uomini, e i mali vi sparse.
Solo il Timor del futuro restò sotto l’orlo del doglio,
nell’infrangibile casa, né fuori volò dalla porta,
perché prima Pandora del vaso il coperchio rinchiuse,
come l’egíoco[8] Giove, che i nuvoli aduna, le impose.
Ma vanno gli altri mali fra gli uomini innumeri errando,
perché piena è la terra di triboli, il pelago è pieno.
E vagolano morbi di giorno sugli uomini, ed altri
giungon di notte, improvvisi, recando cordoglio ai mortali,
muti, ché ad essi tolse la voce l’accorto Croníde:
sicché, modo non c’è di sfuggire ai voleri di Giove..[9]