Camminando s’apre il cammino: intervista ad Angelo Maddalena

Camminando s’apre il cammino: intervista ad Angelo Maddalena

Michelangelo Imperio dialoga con Maddalena in occasione del suo nuovo disco e nuovo libro in uscita. In copertina: “Camminando s’apre cammino”, prodotto da Cattivo Teatro e Autoproduzioni Malanotte

Angelo, è appena uscito il tuo nuovo cd “Camminando s’apre cammino”, presentato il 05 aprile 2025 al camping Eden a Torricella sul Trasimeno, insieme con il libro Maracava e Rusidda, due opere del tuo bisnonno Vincenzo Iaria, che tu hai ripubblicato dopo 120 anni. Sei ormai da vent’anni sulla scena come scrittore, cantautore e piccolo editore, mi viene da farti questa domanda: chi è stato il tuo Virgilio?

Grazie Michelangelo, nessuno mi aveva fatto questa domanda e ne sono contento che sia tu, poeta, pittore e scrittore in nuce a farmela: il mio Virgilio fu Diego Messina, un amico di mio padre, poeta, declamatore, istrionico; morì giovane, quando io avevo poco più di 10 anni, morì nel sonno. Qualcuno diceva che fosse un lupo mannaro. Era una leggenda ovviamente; un altro Virgilio fu per me mia zia Nunziata Iaria, poetessa, avanguardista per le donne siciliane: frequentava i bar dove andavano solo uomini e a giocava a carte, beveva Vecchia Romagna, lasciò il lavoro fisso per scelta ed era battagliera e ribelle, morì a 80 anni passati. Poi un mio Virgilio “inconsapevole” è stato il padre di mia zia Nunziata, e cioè Vincenzo Iaria di cui ho ripubblicato le sue due opere. Io e la mia famiglia, fino a pochi anni fa, sapevamo poco di lui e della statura delle sue opere, era non solo scrittore con riconoscimenti nazionali e internazionali, come dimostra il carteggio con Giovanni Verga che ho pubblicato nel libro, ma anche traduttore dal francese, come dimostra la lettera di Zola, che ho pubblicato, in cui lo scrittore francese si congratula con Iaria per la traduzione dal francese di una sua novella.

Quando e perché hai deciso di scrivere?

Ho deciso di scrivere…da quando sono nato! A 8 anni ho scritto le mie prime poesie, a tal punto “rinomate” che la mamma di un mio vicino di casa mi chiese di scrivere una poesia su commissione per suo padre che era andato a combattere in Russia durante la guerra; è molto tenero questo ricordo. Il mio amico si chiama Marcello e sua madre Maria.

Come definisci la tua arte e, se pensi di incarnare un movimento artistico, di quale si tratta?

La mia arte la definirei come l’arte del calabrone, che vola senza sapere che non potrebbe farlo in base alle leggi fisiche; l’ho raccontato e spiegato nel monologo teatrale Questa sera ti recito Cartesio, è un’arte di Giufà: scaltrezza e ingenuità, sciocchezza e acume, arte di vivere prima e poi arte di esprimersi, forse quello che una volta era il vero artista, disinteressato al guadagno facile attraverso l’arte, ma non per questo disinteressato a fare della propria arte un mezzo per sopravvivere dignitosamente, al di là anche del pauperismo che ho iniziato a superare dopo i 50 anni; non so a quale movimento potrei riferirmi, ho studiato poco la storia dell’arte, qualcuno guardando i miei acquerelli ha parlato di espressionismo ma molto vagamente, in letteratura mi sono formato leggendo Sebastiano Vassalli e Herman Hesse, per quanto riguarda la formazione di cantautore e teatrante ho ripreso la traccia dei cantastorie, del teatro canzone: Jannacci, Dario Fo, Cicciu Busacca, ma poi ho imparato molto dall’arte di strada, come facevano gli artisti fino a trent’anni fa.

Che valore dai all’arte?

Il valore dell’arte è nell’arte stessa, nella ricerca infinita di senso come appagamento e consolazione, nonché la consapevolezza che l’esistenza è una sorta di ferita o di malattia incurabile, in questo sono riconoscente a Emil Cioran, Giacomo Leopardi… poi la mia formazione Cattolica e la mia nascita nella Sicilia interna mi hanno fatto conciliare la ricerca di senso con riferimento a un Dio e a un Gesù immersi nel mondo ma non del mondo, con un sottofondo di senso del tragico.

Qual è il fine dell’arte secondo te?

Il fine è quello di dare risposte a certe domande di senso universali attraverso l’espressione creativa ma anche attraverso un’elaborazione di fondo, un lavoro incessante, estenuante quasi: un esempio è il mio libro e monologo teatrale Amico treno non ti pago. Io ho iniziato sperando e pensando di inserirmi o trovare un movimento politico collettivo, poi disperatamente ho scoperto che ero solo. Sono stato sminuito e sfottuto, però il libro e il monologo hanno fatto il botto, alla lunga, e qualcuno me lo aveva profetizzato: stai toccando dei bubboni che nel giro di qualche anno esploderanno! Ovviamente la solitudine per molti versi è sana, necessaria, soprattutto per l’artista. Quello che ho scoperto è che si continua a non voler vedere una voragine non solo di perdita della dimensione politica collettiva, ma anche di perdita del coraggio di vivere e di affrontare minimamente un conflitto quotidiano o addirittura la vita in sé. Io sono vivo voi siete morti, non ve ne siete accorti, canta Gigi Giancursi dei Perturbazione, dedicando la canzoni agli equosolidali.

Quali sono le mete che ti prefiggi di raggiungere attraverso l’arte?

Le mete sono infinite, la meta è il viaggio, dicono i pellegrini che vanno a Santiago de Compostela; ogni tanto, fino a un po’ di tempo fa, mi dicevo che volevo andare in pensione, smettere di scrivere e fare canzoni e monologhi perché l’ego ne risente, poi all’eremo delle Sarre di Tortora, dove ti ho incontrato, ho trovato pace e risposte: mi sento un missionario, come un medico dell’anima, un servitore del prossimo, un servo delle muse: sono condannato e benedetto al tempo stesso!

A che ora inizi a scrivere la mattina?

Inizio a scrivere dopo la colazione, ma in realtà non inizio rigidamente a scrivere di mattina. Di solito scrivo appena sveglio ma non subito, poi dipende: se sto scrivendo un libro, se devo finirlo o curare le bozze per la pubblicazione, tendo ad accelerare e a essere più metodico, io mi sono formato nella strada come scrittore di viaggio, a maggior ragione scrivo in modo spontaneo, metodico ma non troppo. Per esempio, oggi dopo colazione ho aggiustato un reportage che avevo scritto la settimana scorsa. Non ho un rito mattutino, da qualche anno prego non in modo troppo regolare, faccio silenzio e a volte leggo o un salmo o un piccolo libricino di Lode del mattino e della sera stampato dalla Fraterntià di Romena, e poi il mio rito è il miele e il tè della colazione, con variazioni di fette biscottate o pane e marmellata e a volte frutta secca o fresca, con variante di colazione salata (pane e formaggio o pane e salumi).

Senti la difficoltà di vivere di sola arte?

La difficoltà di vivere di sola arte la sento sempre ma sempre mi spinge avanti per continuare a farlo, è una sfida e un appagamento, una ricerca e una fatica ma più di immaginazione che di trovare la soluzione. La soluzione c’è, basta sbloccare l’immaginazione, sgomberare l’immaginario dai suoi impastoiamenti. Nel mio caso però sono arrivato al punto che sto cercando collaboratori per condividere la mole di produzioni e di organizzazione, da qualche anno infatti organizzo il Festival della Malanotte, una volta all’anno. Claudio Jaccarino mi diceva che è la necessità che ti spinge a fare l’artista, a sbloccare immaginazione e pigrizia. Un giocoliere che incontrai nel 2002, quando ero alle prime armi, alla domanda: «Perché hai iniziato a fare il giocoliere?», mi rispose così: «Avevo bisogno di soldi», e lì è il viaggio che ti salva, perché è incontro, incoraggiamento reciproco.

Ha ancora un senso scrivere oggi?

Scrivere ha il senso…di vivere! Antonio Carletti dice che scrivere è come respirare, figurati quanta gente c’è in apnea! Scrivere è anche e soprattutto elaborare la realtà, resistere all’oblio e alla carestia di immaginazione, è vivere la vita pienamente. Anna Politoskaja diceva: “Io vivo la vita e scrivo di ciò che vedo” e l’hanno fatta fuori. Molti psicologi consigliano di scrivere un diario magari in terza persona come terapia!

La narrazione oggi trova ancora un suo spazio, un suo perché?

La narrazione uno spazio lo deve trovare, ma è sempre una sfida e uno scavamento: vedi la canzone che ho scritto durante i quattro giorni a Coltriciano, l’eremo di Romena: la canzone, che racconta alcuni aspetti “critici”, ha trovato lo spazio per evitare di esplodere o di scappare, sublimando e facendo ironia e autoironia ho fatto un lavoro anche collettivo, adesso tutti ridono divertiti e si ritrovano, anche quella è narrazione terapeutica, la funzione originaria, forse, del teatro, la catarsi; poi in questi tempi di virtuale e digitale e smaterializzazione, andare dentro la realtà e raccontarla è sempre più urgente e salvifico.

 

 

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