Aleph sonoro
Prosa di Rocco Giudice. Foto di Martino Ciano
Il silenzio era così grande che si poteva sentirlo crescere, impossessarsi delle pareti, irrompere dalle finestre, scoperchiare il soffitto, straziare le viscere, perché le viscere soltanto potevano avvertirne la potenza, non le orecchie, ma il cuore e gli occhi, le mani e i denti potevano lottare col suo strazio.
Questo silenzio crebbe, crebbe, crebbe finché giunse all’acme, un diapason incredibilmente sonoro che si spezzò con uno schianto, non così assordante, ma crudele, tanto non poteva reggere il suo stesso volo quel silenzio dalle ali spalancate come fauci ma dalla schiena delicata, allorché la ragazza che viveva da sola a pianterreno attaccò con la solita, sciocca canzonetta che le piaceva tanto, unendo allo stereo la propria voce, acuta e d’una limpidezza da far pena; e subito, le fece eco il rombo d’un aereo in fase di decollo, seguito da sirene spiegate, che si prolungarono tanto da confondersi a campane a distesa, orologi a pendolo e a cucù, radio sintonizzate su emittenti mitteleuropee che trasmettevano musiche d’orchestra, voci che pronunciavano con dolcezza parole dai suoni duri, che sembravano soffocare il respiro con cui si perdevano nell’aria prima ancora di finire, parole vitali e preziose, quand’anche impure; e il fracasso di motori e di carcasse d’automobili smontate o sfasciate da un’autorimessa, le frasi smozzicate d’un flicorno stampigliate sopra e quindi, raschiate da un vecchio disco che provenivano da una mansarda ripetendo gli stessi interrogativi; passi che risuonavano per tutto l’edificio condominiale, voci ammassate come le pareti che le racchiudevano: e sciami di voci che oscuravano il cuore, bisbigli sotterranei che scossero le fondamenta come uragani, senza che l’origine di tutte queste cose fosse visibile o si scorgesse, ma offrivano un indizio senza nessuna certezza delle cose cui risalire.
Chiudendo gli occhi, era facile immaginare che venissero dai più remoti angoli del mondo o da altri mondi – da isole emerse solo per dare un appiglio alle onde sfilacciate che vi annaspavano intorno, paesi e continenti dove i monti erano fatti di una pasta più morbida, di un lievito più dolce le nubi.
Allora, lui si tirò su dal letto e senza articolare una sillaba da aggiungere come una chiosa a quel frastuono, pensò: “Ora capisco! Le frasi consuete, i gesti casuali ogni volta sbadatamente ripetuti: c’era, in questo, la forza che non si lascia sottomettere o logorare, la spensieratezza in cui si mostra inconsapevolmente la consapevolezza d’ognuno, la perseveranza che è tutta la scienza di un’anima che non sa vivere lontana dal corpo e rende mistici gli umili!”
Poi, col viso fra le mani, rimase a meditare su quelle frasi, trovandole prive di senso; e questo lo confortò e gli diede abbastanza coraggio; e allora, quelle frasi gli uscirono di mente divenendo anch’esse parte del rumore che era la sostanza del mondo.
“No!” dovette urlare questa volta “Non potrò mai, mai capire! È tutto inutile! Per sempre! La perseveranza ha reso inutile il coraggio richiesto da quello che è diventato un sacrificio che non varrà e cui non servirà perdono, un’ostinazione senza speranza! Sono una sola cosa la vanità e la prudenza; e una sola vanità la giustizia e l’ingiustizia; e una superstizione quella che, alle orecchie dei più, passa per saggezza, mentre, semmai, è la solita scusa rinverdita dal livore con cui rinfacciare a se stessi le cose che ci hanno deluso e che neppure così riusciamo a aborrire: invece, è un’ammenda per chi vuole solo calunniare le cose che non è capace di amare!”
Dopo di questo, si sentì prendere da una certa allegria: emozione ancora incerta, timorosa, quasi si sapesse indegna della gratitudine che non sapeva nemmeno lui stesso a cosa fosse dovuta. Si alzò dal letto e fece un paio di giri della camera, in un accenno di danza di un inconsapevole rito propiziatorio.
“L’esigenza di capire nasce da una disposizione delle cose stesse o dell’intelligenza?” si domandò, alla fine, sedendosi su una sedia davanti a un piccolo specchio mobile, che girò verso la parete opposta per trovare all’accessorio una compagnia assai simile alla sua. “Bah! Tutto questo non importa più. Non vorrei fare diventare filosofica una questione così futile: ma, anche se penso a questioni meritevoli di una considerazione più seria, non cambia nulla, dal momento che risolvere certe angustie sarebbe più semplice che tollerarne l’incertezza. Ma forse che tollerarle sarebbe meglio? No, sarebbe folle pensare che questa è una prova, che mi si mette alla prova! Si presenta un problema e subito, che lusinga irresistibile, pensare che sia un segno da cogliere per dimostrare quanto si vale, quel che si vale davvero! È assurdo!”
Ormai, era quasi euforico. Aveva ritrovato tutta la sua sicurezza e questo, in men che non si dica, grazie a un po’ di riflessione. Ora, poteva dare sfogo anche a una certa spavalderia:
“… C’è una devozione al destino delle cose amate che non ne risparmia neppure una, sia il vento nella stanza col balcone aperto, una lontana sera di primavera, nella solitaria casa di campagna, sia l’incanto della polvere su di un muro battuto dal sole… Una parola sentita per caso… E il grido di una madre…”
Si affacciò alla finestra e fece appena in tempo a scorgere il postino sulla bici sparire nell’angolo in fondo alla strada lustra di pioggia, fischiettando e pedalando, la sporta a bandoliera, già lontano, incredibilmente illeso, miracolosamente salvo.