I cortili di Megatubi di Giuseppe Guglielmo

Recensione di Rocco Giudice. “I cortili di Megatubi” di Giuseppe Guglielmo, Officina della Stampa, Catania, 2024
C’era una volta la letteratura industriale… Sembra una favola, un mito (che ritorna: l’eterno ritorno del mito), categoria incompatibile – in teoria – con la modernità e tanto con più con la post-modernità, con un’era digitale che abbatte le barriere fra globale e locale e tutto riporta alla dimensione omologante e narcisistica, ristretto all’orizzonte atrofizzato del display, specchio delle brame del perfetto cives, l’onedimensional del selfie.
La letteratura industriale è remota quanto i paesaggi della desertificazione industriale (in realtà, produzione delocalizzata in aree dell’ex Terzo o Quarto Mondo), lontana nella memoria più di quanto lo sia nel tempo. Anch’essa appare come i ruderi di un’archeologia industriale che costellano il cammino delle magnifiche sorti e progressive in un passaggio d’epoca ultra-rapido: per rifluire in una mitologia o sub-cultura o cultura a escursione regionale/epocale da cui la modernizzazione voleva liberare le aree depresse del nostro Paese. Ê notizia di questi giorni, infatti, che il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne dà per scontato lo spopolamento che nessuno ha mai cercato seriamente nemmeno di contrastare. Si parlava, negli anni ruggenti della mobilitazione pressoché permanente, di “cattedrali nel deserto”: venendo prima di ogni accomodamento umano, il deserto ha vinto.
Ma è un discorso che ci porterebbe molto lontano, mentre vogliamo soffermarci sul poderoso volume (538 pagine di testo, più una e mezza di note) di Giuseppe Guglielmo, “I cortili di Megatubi” (Officina della Stampa, Catania, 2024), in cui confluiscono, rielaborati senza discostarsi troppo da esperienze biografiche (auto-fiction, nel glossario critico-editoriale in auge) di anni cruciali, la prima metà degli anni Settanta. Vi sedimentano i ricordi di un tecnico che ha vissuto speranze, limiti e contraddizioni dell’Anic di Gela, uno dei poli del petrolchimico, che voleva rappresentare un’occasione e più ancora, ambiva costituire un modello di sviluppo per la Sicilia (con le raffinerie installate a Milazzo e Augusta-Mellili-Priolo), analogamente a quanto avvenuto con gli stabilimenti siderurgici impiantati altrove nel Sud, da Bagnoli a Taranto, da Menfi a Gioia Tauro, con i programmi della Cassa per il Mezzogiorno (che erogò, per quarant’anni circa, da Casmez a AgenSud, decine di miliardi ogni giorno: un investimento colossale, senza precedenti né confronti nella storia del mondo).
Beninteso, data l’ambientazione, Giuseppe Guglielmo non racconta gli anni del boom economico e le tensioni che accompagnavano questo fenomeno nel contesto dei conflitti di classe, con l’alienazione conseguente lo sradicamento nel passaggio dalla campagna alla città, come ne La vita agra di Luciano Bianciardi; né l’emigrazione dal Sud depresso e arretrato al Nord che conosceva l’industrializzazione – vedi Ottiero Ottieri in Donarumma all’assalto –; né i primi sentori della finanziarizzazione globalizzata dell’industria, come in Le mosche del capitale (Megatubi/Anic richiama il Megagruppo/Fiat di questo romanzo), di Paolo Volponi; neppure ritroviamo – almeno, in modo scoperto – i risvolti psicoanalitici de Il padrone, di Goffredo Parise. L’indagine sociologica, la diagnosi e terapia ideologica non hanno nulla a che fare con un così corposo documento romanzato: la cui peculiarità è tutta nel raccontare negli anni cruciali, a metà degli anni Settanta e a ridosso della crisi petrolifera, l’impatto di una industrializzazione – necessariamente traumatica? E inutile? Nel tentativo di risolvere la Questione Meridionale e di fatto, per perpetuarla, malgrado le migliori intenzioni? – in un’area ferma a sistemi di produzione pre-industriali. Non sono a conoscenza di altre opere – immagino ce ne siano – che abbiano raccontato come l’Italsider a Bagnoli, l’Ilva a Taranto, la Fiat a Termini Imerese o Fiat/Stellantis a Melfi abbiano inciso sulle rispettive realtà locali: per quanto mi riguarda, questa di Giuseppe Guglielmo è la prima opera di narrativa che racconti questo processo, l’industria calata da Nord a Sud, la montagna che va a Maometto, vissuto a Gela con gli impianti dell’Anic.
Esclusi i modelli predetti, sembra plausibile che Giuseppe Guglielmo abbia guardato a Leonardo Sciascia, non come modello letterario della narrativa d’indagine svolta in maniera innovativa dal Maestro di Regalpetra (l’opera eponima è espressamente citata fra le letture del protagonista del romanzo di Giuseppe Guglielmo), ma per una analoga disposizione a esaminare i fatti con un atteggiamento razionale e “laico” di fronte alle storture della società e ai crimini che ne conseguono. Da questo punto di vista, gli spunti offerti dal romanzo non mancano: e Giuseppe Guglielmo li ha registrati, ma senza svilupparli, neppure sulla scia telegenicamente accattivante di Andrea Camilleri. Il romanzo segue, invece, una parabola da intendere anche in senso “evangelico”: il termine non suoni eccessivo, se il protagonista, Pietro Zisa, è una sorta di figliol prodigo che ci è mostrato nelle prime pagine in un antagonismo generazionale e personale col padre, Crescenzio: che, vittima di un incidente sul lavoro, trascorre i suoi giorni su una sedia a rotelle.
Il vecchio non può tenere il passo con i giovani, Pietro e la sorella, Violetta, che si avviano verso un futuro che sembra promettere benessere, più giustizia, maggiore libertà. Pietro è un comunista non inquadrato nelle strutture di Partito come militante o attivista disciplinato, né in quelle sindacali, ma un idealista – alla fine, si rivelerà per tale suo malgrado e a sua beffa – ogni giorno, sul fronte del lavoro, della dialettica con le strutture dell’azienda petrolchimica in cui è assunto come tecnico, della città in cui lavora, nell’estrema periferia non solo geografica del Paese. Il suo impegno si esprime scrivendo per un giornale a escursione regionale. Nel farlo, da tecnico privo di una formazione “regolare” quali viene da studi o da un apprendistato specifico, Pietro è un “irregolare” anche rispetto alla prudenza e alla disciplina che il giornalismo impone nel rapporto con una società con i cui referenti – lettori, proprietà, istituzioni – occorre fare i conti, in un modo o nell’altro.
In una realtà divisa nel rapporto antagonistico fra il petrolchimico per cui lavora (la SyntOil aka Megatubi alias Anic) e il territorio (Tabbia d’Eleusi, nome classicamente evocativo per Gela), Pietro è schierato con quella rivoluzione industriale fuori tempo massimo che dovrebbe fare da prodromo o compensazione a una rivoluzione politica che sempre più rattrappisce in anacronismo. L’utopia confindustriale e parastatale come scorciatoia per il futuro più di quanto una rivoluzione possa accelerare i tempi della storia. Pietro è, di fatto, spettatore e cronista di un degrado che appare inarrestabile e irreversibile, fra inquinamento e abusivismo edilizio.
Degrado ambientale, occultamento di vestigia archeologiche, cancellazione anche della memoria delle secolari modalità di vita pre-industriali: conseguenza indesiderata o effetto collaterale della grande trasformazione, questa devastazione è la forma conflittuale fra mondi contrapposti, in cui ciascuna delle controparti è in un dissidio più profondo con questioni irrisolte al proprio interno. Della disastro ambientale e civile nessuno dei due fronti – petrolchimico vs. abusivismo edilizio – vuole portare la responsabilità. Pietro difende e anzi, rappresenta le ragioni della modernizzazione id est industrializzazione: in più, la consapevolezza che solo la classe operaia dispone delle conoscenze tecniche, esperite e tesaurizzate nel lavoro di ogni giorno, necessarie per salvaguardare l’interesse generale che la gestione capitalistica dell’impresa, sfruttando impianti e forza-lavoro, sacrifica al profitto.
Questa certezza illumina tutto il resto: per Pietro, l’abusivismo non ha nulla a che fare con l’industria, è frutto della gestione mafiosa o para-mafiosa del territorio, in un’area, quella della Piana di Gela e dell’entroterra Nisseno, in cui la mafia è (ma, forse, è più corretto dire era) una presenza storicamente attestata e fortemente radicata. Pietro ha modo di constatarne fenomenologie e modalità operative: finché un insospettabile gli si rivela come rampollo di una tradizione che, a dire del tale, costituisce un fattore di equilibrio in un sistema sociale cui lo Stato è estraneo.
Lo Stato agisce da erogatore di servizi amministrati, nella sostanza, da uomini in grado di garantire che i conflitti non deflagrino, se non all’interno della struttura mafiosa, camera di compensazione di interessi concorrenti o intreccio di strategie convergenti in una morsa stretta sul territorio. Assistenzialismo, non di rado, parassitario clientelisticamente gestito: la stessa SyntOil/Anic rientra nel novero. Che il depositario del potere parallelo sia un barbiere è la prova che non è l’interesse materiale a determinare, in primo luogo, i meccanismi di produzione e regolazione della violenza, ma una sorta di investitura “morale” autocertificata che nobilita una sopraffazione feroce anche quando esercitata come welfare ricattatorio e soft power minatorio.
Ma siamo a metà degli anni Settanta: il consumismo, la società dell’opulenza, dispensatrice di beni e servizi, la ricerca del benessere materiale che non vuole essere frustrata né attendere i tempi “fisiologici” richiesti dalla trasformazione, non sono più compatibili con i vecchi codici. Nella conclusione del romanzo, a Pietro, fra altre cose che lo disilludono (compagni di lavoro uccisi dal cancro innescato da un ambiente inquinante, altri che cambiano lavoro o emigrano, un compagno di lotta che, pur continuando a lavorare per il Partito, esibisce una spider rossa da felicemente imborghesito e gli rivela di far parte di Gladio, la rete segreta para-militare organizzata dalla Cia. in funzione anti-comunista), riferiranno che il barbiere, garante degli equilibri mafiosi cittadini, è stato eliminato.
Le dinamiche di potere cambiano: dalla lupara al kalashnikov, la modernità corre con la velocità dei proiettili. Uccidono di più le canne fumarie che eruttano gli scarti di una produzione che utilizza combustibili fossili altamente inquinanti. Pietro, con la sua ostinazione a fare luce sulla superficie di un mondo rassegnato o ben disposto a soccombere, non potrà più seguire i processi di riassestamento e di evoluzione. Non sembra nemmeno percepire che l’abusivismo è un fenomeno che non può essere letto secondo gli schemi dei rapporti di classe: le masse integrate nel sistema – a cominciare da quello di fabbrica – non hanno alternativa e non ne danno a chi ne ignora le esigenze concrete per ragioni di principio.
La fiducia di Pietro nasconde la sensazione che il tempo dell’industria sia finito, un ciclo della storia si è chiuso e l’ideologia non è più in grado di dar conto di quello che accade o sta per accadere. Si accorge di essere un uomo del passato: che non può più muovere, come in una staffetta ideale col Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, verso i luminosi traguardi del futuro. I fatti rivelatigli nelle pagine finali riguardo morti ammazzati per malattie contratte sul posto di lavoro o da arma da fuoco, si sono svolti mentre lui era in coma per mesi, in seguito a un incidente stradale: mentre aveva gli occhi chiusi, era fra la vita e la morte: cieco prima, durante e presumibilmente, anche dopo, tagliato fuori da ogni processo vitale, condizione somatizzata dall’infortunio, nemmeno occorsogli sul lavoro. La corsa precipitosa, in auto e con le dinamiche storiche, gli ha spezzato le gambe: destino di un uomo spezzato fra sentimenti fraintesi e ragioni inconciliabili.
Ma il passaggio di consegne che salda le generazioni in una paralisi sostanziale si verifica all’interno dell’istituzione fondamentale, la famiglia, cui Pietro non sfugge, pur essendosene distaccato, non solo fisicamente, lavorando lontano da Palermo: padre e figlio si rappacificano, quando il primo sembra giunto alla fine dei suoi giorni: il padre ammette di avere sbagliato a non sostenere Pietro in una occasione che vide il figlio scontrarsi fisicamente a scuola con un prete, episodio che decretò la fine degli studi per il ragazzo, costretto a andare precocemente a lavorare – il lavoro come punizione, non come emancipazione. Pietro non avrebbe perdonato né al padre né a se stesso quella decisione.
Proprio per questo la tardiva resipiscenza paterna non può essere liberatoria, non annullando le differenze sul piano generazionale e politico, né può appianare le asperità del carattere, ispessite dai trascorsi. Le sancisce, anzi, come una eredità che sigilla nel blasone di una sconfitta storica la fine di ogni speranza di riscatto sociale e civile e insieme, sul piano personale, per chi ha legato la propria vicenda a quella di una causa più grande.
È così che, quando Pietro sembra aver chiuso i conti col padre e con Ofelia, la donna di cui, innamorato fin da ragazzo, si è visto respinto, mentre si reca in auto a tutta velocità verso un’altra donna, incorre, nel tentativo di evitare un cane, nell’incidente stradale che lo mette ai margini della via maestra che sembra dover condurre al futuro. Ma è un muro a pararglisi innanzi in quella epifania zoomorfa di cui si avvede troppo tardi: un blocco storico, un nodo scorsoio lo stringe a un passato che lo reclama: nessuna liberazione da un padre morente, che ha confessato in punto di morte un errore che perpetua la propria emarginazione dalla vita attiva con il torto che gli è fatto in extremis: l’ammissione di colpevolezza che lo vede, debole, soccombere a una mancanza di pietas filiale, che Pietro gli ha negato fino ad allora, dissimula un verdetto nell’autodafé: l’assoluzione come viatico a un anatema a vita.
La colpa del padre è speculare a quella del figlio, la somma di esse non è una riconciliazione, ma il ripetersi di un destino – incompiuto: aperto, ma come una ferita insanabile. Un regolamento di conti anche questo: conti in perdita da entrambe le parti. Lo stesso con Ofelia: il bacio con cui Pietro confessava l’amore era una sorta di bacio di Giuda che tradiva l’amicizia che per la donna era l’unico sentimento possibile fra i due. L’impossibilità dell’amore rende illusoria, senza uno sbocco “pratico”, ogni altra passione: politica e civile non meno che sul piano personale e sentimentale. Alla fine, nei cortili di Megatubi/Tabbia d’Eleusi, che dell’impianto industriale sembra la propaggine infetta di un’arretratezza atavica e una zavorra allo sviluppo, confluisce il cortile del sobborgo palermitano di cui Pietro è originario: e insieme, i cortili configurano quel teatro in cui si rinnova una tragedia storica nella sua versione moderna, nel passaggio dalla società contadina a quella post-industriale senza davvero essere passati da quella industriale. Si perpetua, mutatis mutandis, quanto aveva già protocollato Giovanni Verga: tutti vinti e soddisfatti o rassegnati così, la hybris di Pietro, ribelle alle religioni della famiglia e della storia, viene punita con una nemesi inesorabile.
Detto che la narrazione profitta di un linguaggio elegante e a tratti, brillante – perfino troppo, a volte, con citazioni latine dai classici o riferimenti colti che rimbalzano fra tecnici, operai, quadri aziendali, professionisti pragmatici, ma che tengono a un’aura colta –, una così ampia narrazione – ricordiamolo: 538 pagine – si distende fra romanzo e documento di storia sociale. Non perché si tratti di etichettare e poi, di far valere una distinzione fra termini non per forza in opposizione dialettica, ma perché, in effetti, I cortili di Megatubi, pur ruotando attorno al rapporto fra città e fabbrica ovvero all’impatto, da epidermico a distorsivo (fino all’estraneità, all’impermeabilità), che la modernità ha rispetto a una sedimentazione storica che ne è scalfita, non si organizza intorno a un centro tematico, non si riconduce a una idea o a una visione riconoscibile.
Può bastare che la scrittura di Giuseppe Guglielmo si disponga come uno di quei cortili che compaiono nel titolo per raccontarsi, come si faceva una volta, la storia di figure combattute tra fiducia nel domani e scetticismo storico, non solo ancestrale. Può anche darsi sia sbagliata l’attesa di quello che, per semplificare, possiamo chiamare un messaggio: che la stessa trama di fili che se ne dipartono, senza intrecciarsi in un disegno visibile, sia funzionale al ruolo marginale che spetta al protagonista, dal cui punto di vista si snoda la vicenda o si affastellano i fatti, oltre la possibilità di ridurre a coerenza quel che nella realtà rimane irrisolto.
Una storia d’amore che sembrava prevedibile si conclude imprevedibilmente nelle prime 120 pagine o poco più; un sequestro di persona (in anni in cui anche in Sicilia furono frequenti, con strascichi sanguinosi, infrangendo il patto secolare, divenuto “tradizione”, fra mafia e classe agiata: ma la mafia che emergeva aveva bisogno di capitali da investire nel business della droga, rompendo i vecchi equilibri, che porteranno all’implosione di Cosa Nostra siciliana, lasciando campo libero a cuti chiatti, letteralmente, ciottoli piatti o stiddari, come dire, bande di teppisti senza regole) che vede coinvolto un ingegnere incuriosisce il protagonista e di riflesso, il lettore, ma è un nulla di fatto rispetto alla trama; un episodio che vede il protagonista come soccorritore e testimone di un agguato mafioso si chiude senza effetti sul prosieguo; l’incendio del Palazzo di Città e la strage in una sala biliardi (sette giovani uccisi: fatti realmente accaduti) sono senza esito e non hanno alcun rilievo, come ci si sarebbe potuto aspettare.
Poi, tutta una serie di personaggi e vicende che assumono un ruolo, certo, emblematico, ma senza incidere sull’andamento dei fatti. Sono limiti di una testimonianza che non discrimina nel materiale cui attinge: ma il cui valore – lo qualifichino i lettori che auguriamo al romanzo e che non hanno bisogno di suggerimenti – rimane al di là, in primo luogo, dell’abusato paradigma della sicilitudine, foss’anche nella versione riveduta e corretta da Camilleri: e si pone oltre una nostalgia reducistica o generazionale per occasioni mancate: in cui la storia, nei suoi vuoti e salti nel vuoto e inconseguenze, si adatta a mito.