Sommesse preghiere di Marcello Buttazzo

Recensione di Filomena Gagliardi. In copertina: “Sommesse Preghiere” di Marcello Buttazzo, Collettiva edizioni indipendenti, 2025
“In quella parte del libro de la mia memoria, dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica, la quale dice: Incipit vita nova.”
(Dante)
Marcello Buttazzo è un bravissimo poeta. Finora ho potuto leggere le sue poesie tramite la rete: spesso infatti i suoi testi sono accolti su Border Liber. Recentemente Marcello mi ha fatto dono di una plaquette data alla stampe da Collettiva edizioni indipendenti e intitolata Sommesse Preghiere. Sommesse nel tono, pacato e amorevole, sommesse per la veste grafica assunta nella pubblicazione, un libello con copertina bianca, tascabile, elegante nella sua semplicità.
Ma non nel valore poetico. E leggere in cartaceo questi versi li valorizza ancora di più.
Dopo una prefazione dell’autore, seguono nove poesie, tutte sine titulo ー tranne la terza A mamma Antonietta ー, dedicate a figure femminili, quasi tutte però anonime (sine nomine). Ciò rende le liriche universali. Non è anonimo il componimento di apertura della raccolta che inizia con Maria, nome evocativo per eccellenza, nome della preghiera per antonomasia: “Maria/come un preghiera” si scrive a inizio e fine del testo; perché Maria è, nell’immaginario collettivo, la madre di tutti, compreso Dio.
Ed è colei che tutti invocano in caso di necessità. Poco importa allora che Maria possa vestire i panni esotici di una donna senegalese… anzi semmai ciò ne conferma la dimensione universale… anche perché la Maria del nostro Marcello è perfettamente integrata in Italia: “Tu vieni/dal Senegal/e qui da noi/hai trovato la tua casa”. Infatti lei ha usi italiani ‘Ti incontro/in piazza/al bar’[…’] “Ti offro il caffè”; ed è bella come tutte le donne: “e il tuo sorriso di perla/è il sole/che illumina”. E cosa c’è di più bello che tratteggiare, come fecero gli Stilnovisti, ovvero i padri fondatori della Letteratura italiana, i tratti fisici più nobili di una donna, come il viso, nei cui occhi e nella cui bocca, può aprirsi un sorriso?
Apparentemente meno universale, in quanto racconta della madre del poeta, è A mamma Antonietta, la terza fra le liriche presenti nella stampa. Ma la poesia, anche quando ha un dedicatario specifico e riconoscibile, ha sempre dei tratti più generali: “Madre,/ancora vai/su e giù per la casa,/traversi le stanze/come soffio di vento”. Come non riconoscere nella madre che va su e giù nella casa i tratti tipici delle donne omeriche? Ecco cosa si legge, a tal proposito, nel primo libro dell’Odissea: “dal piano di sopra udì nella mente il canto divino/la figlia di Icario, l’avveduta Penelope: l’alta scala scese della sua camera,/non sola, ma insieme a lei anche due ancelle facevano seguito” (vv.328-331, traduzione dal greco mia).
Certo, nel mondo greco la casa era il luogo delle donne, nel senso che il loro era un mondo separato in quanto esse dovevano stare in casa e non potevano uscire nel mondo reale, quello degli uomini. Ecco infatti cosa le dice il figlio Telemaco, quando lei osa chiedere a chi sta cantando, l’aedo Femio, di non recitare più il “canto doloroso” concernente Ulisse, lontano chissà dove: “ma, andando nella tua stanza-casa, cura i tuoi lavori/il telaio e la conocchia, e ordina alle ancelle/ di ispezionare il lavoro; la parola, invece, starà a cuore agli uomini/a tutti, soprattutto a me; mio infatti è il potere qui in casa” (vv. 356-358, traduzione dal greco mia).
Non così lo intende ovviamente Buttazzo, ma l’idea della dimora e delle stanze come luoghi del femminile è greca… e Marcello, che vive in Puglia, respira sicuramente l’aria della Grecia. Del resto il Sud Italia si chiamava anticamente Magna Graecia, proprio per questo, perché indicava una riproposizione, in grande, della madrepatria ellenica, anche con l’inserimento di qualche libertà in più.
Alla mamma il Nostro parla mediante dei versi che, pur a distanza, sono paralleli: “sei il tempo/[…] sei il sole/[…] sei la rosa/[…] sei l’ardore”. Alla fine per lei una preghiera, come fosse non solo la sua mamma, ma la Madre: “Solo una piccola supplica/ti rivolgo:/ti prego, non morire/[…]Ti prego, madre/non morire/Non lasciarmi/disarmato/in questo mondo sconfitto dilacerato/sconclusionato”.
La “piccola supplica” richiama le “sommesse liriche” del titolo; eppure la contiguità del “ti rivolgo-ti prego”, rafforza la potenza delle supplica, anche per via dell’anaforico “ti” e della punteggiatura, costituita dai due punti esplicativi dopo “rivolgo”. Nei versi sopra riportati, inoltre, ritornano costanti, il non morire, la negazione a voler esorcizzare la morte, la paura di restare solo o meglio “disarmato” “in questo mondo sconfitto disastrato sconclusionato”: gli aggettivi, accostati in asindeto, accumulazione e climax, accentuano la forza del mondo di fronte al poeta disarmato. Qui mi pare di leggere il Petrarca (1304-1374) quando, nei vari testi del Canzoniere, afferma di essere disarmato. Diversa è la motivazione. Nel poeta aretino l’io lirico è disarmato di fronte all’Amore per Laura, che lo domina in toto, non essendo ricambiato; Buttazzo, invece, lo è di fronte al timore della perdita.
Le altre liriche, come si diceva, sono sine titulo et sine nomine, ma tutte hanno un dedicatario o interlocutore declinato al femminile. Vorrei ancora soffermarmi su una di queste in particolare. Si tratta della seconda ed ha per tema il ricordo: è un “pomeriggio di quiete” e il silenzio circostante favorisce la rievocazione del passato: “è il momento/del ripiegamento su me stesso/è ora di dare voce alla memoria,/ ai decidui istanti passati/quando la gioia/era fisiologico accadimento”. Nonostante i “decidui istanti”, assicura il poeta, ciò che lo muove non è la malinconia, ma solo un desiderio cognitivo, ovvero teso a vedere se davvero la memoria funzioni ancora a far riemergere il viso di una ragazza amata molti anni fa, con il suo “bel viso/di sedicenne/, con i suoi “occhi verdi più del mare” e il suo “viso da mangiare con il pane con il sale”.
Oltre ad un desiderio fisico, muove il poeta un desiderio sentimentale: “Sopra un diario rosso/scrivevi tutte le poesie/della nostra storia infinita./Sopra una terra/di zolle rosso sangue/mi hai lasciato/un cesto di parole/spezzate interrotte/inconcluse frammentate”. Riuscirà l’io lirico a recuperare il filo logico di queste parole interrotte, ovvero il senso di questa storia d’amore? Ai lettori l’ardua sentenza. Intanto mi vengono in mente due sollecitazioni.
La prima, che deriva da Platone (428/427-348/347 a.C.), è che la memoria è sempre un fatto interiore, nonostante la presenza di uno stimolo esterno; per la seconda non poteva mancare, ovviamente, Dante (1265-1321), che amo, in maniera anche io disarmata. Stavolta faccio riferimento alla Vita Nova, il diario autobiografico, molto sui generis del suo amore per e con Beatrice.
Ebbene il Sommo, all’inizio del suo prosimetro parla di un libro della Memoria, con una rubrica, ovvero un titolo in rosso (in latino ruber significa ‘rosso’) che diceva così: “Incipit Vita Nova”; in questo volume, sotto la rubrica, dice ancora Alighieri, sono contenute tutte le parole importanti: scrivere questo diario significa proprio cercare di recuperare tali parole, metterle insieme e farne una storia. A campeggiare su tutto in Marcello come in Dante è il rosso, colore dell’Amore, della Passione in tutte le declinazioni. Beatrice indossava un vestitino rosso quando lui, ci narra, se ne innamorò perdutamente.
Prima di congedarmi dal pubblico, vorrei invitarlo a leggere questi componimenti che sono gradevoli non solo per le tematiche trattate, ma anche per lo stile, fatto di parole talora anche desuete e di figure retoriche notevoli. Non voglio sembrare una lettrice all’antica, vittima anche del proprio ruolo di professoressa che costringe i suoi alunni ad imparare a memoria i testi e tutte le noticine del libro; non è così: ma la poesia deve avere la sua sostanza, la sua “ciccia”.
E questa è data dalle parole, da come vengono scelte e costruite insieme; altrimenti, senza la sua giusta andatura, ovvero il suo ritmo, leggere poesia e leggere prosa sarebbero la stessa cosa… e allora grazie Marcello perché, metaforicamente, oggi mi hai offerto un ottimo pranzo impreziosito da un dolcetto finale, ovvero dalla tua osservazione Sulla scrittura con cui chiudi il tuo libello.
Qui definisci le motivazioni sentimentali, civili ed etiche del tuo comporre, nonché cognitive: scrivi per conoscere te stesso e, proprio come Dante, sei consapevole che non sempre ci riesci completamente però: ciò, tuttavia, non annulla il tuo impegno, come quello dell’Alighieri: nonostante le “pieghe del rosso”, resta sempre per te la necessità di scrivere per trovare te stesso non come forma di “solipsismo “ o “egocentrismo”, bensì come “ponte” per conoscere l’altro, perché la scrittura è “compartecipazione”: sai… qualcosa di simile ha scritto Han Kang nel suo Discorso di accettazione del Premio Nobel per la letteratura per il 2024 (Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, trad. it. a cura di Adelphi 2025).
Un caro saluto al piccolo e bellissimo fiore che è la tua mamma (Antonietta è un diminutivo di ἄνθος, in greco ‘fiore’).