Scalzo

Scalzo

“Scalzo” è un racconto di Mattia Azzini. In copertina una foto scaricata da Pexels per uso gratuito

Ieri sera ho trovato in solaio gli stivali di cuoio di mio padre; proprio quegli stivali.
Barba alla Souvarov, calvo sulla sommità della testa, pancia sferica e braccia nerborute. questo era il suo aspetto di quando ancora li indossava.
Ricordo che li riponeva in un angolo della camera da letto, sporchi o puliti che fossero. Io, accertandomi che nessuno mi vedesse, mi intrufolavo nella stanza per contemplarli più da vicino possibile, proprio come la nonna si fermava davanti alla statua della Madonnina, bisbigliando qualcosa di incomprensibile.
Mio padre era un tipo scanzonato, ma quando metteva quei vecchi stivali sbiaditi, e un po’ maleodoranti, si narrava (non ricordo l’origine di questa narrazione) che incutesse timore a chiunque.

Mutava espressione, con quella fronte corrugata, lo sguardo duro e la rapidità dei movimenti; pareva potesse realizzare qualunque cosa.
Passavo giornate a vaneggiare su cosa sarebbe successo se li avessi indossati: i compagni di classe mi avrebbero guardato con ammirazione, nessuno avrebbe osato più infastidirmi; tutti i miei problemi si sarebbero dissolti. Certo, ci sarebbe stato il disagio di camminare con degli stivali numero 48 con il mio ridicolo 35, ma ero certo avrei ovviato anche a questo problema. Rimaneva solo trovare il momento adatto in cui sottrarglieli. Avevo provato a chiedergliele in un momento di estrema necessità (per una contesa con un ragazzino più grande con un problema di cleptomania), ma lui aveva liquidato la questione dicendo: «Ognuno deve avere i propri stivali», mostrando un sorriso annerito per il troppo vino rosso. La trovai una risposta stupida ed egoista, perciò sbuffai e sparii in camera.

Architettai il piano una sera d’estate, quando mio padre era in osteria con gli amici, a riempire il tempo tra briscola, improperi e vino di qualità scadente. Mia madre era uscita per recitare il rosario assieme alle vicine di casa. Avrei finto un furto mettendo in subbuglio la casa, per appropriarmi degli stivali. Entrai nella camera da letto dei miei genitori, ma prima che potessi gettare lo sguardo sulle tanto bramate calzature, sentii la porta sbattere con irruenza. Il mio istinto mi trascinò dietro la porta; mio padre entrò imprecando senza sosta, si infilò in fretta gli stivali e uscì, tirando un calcio alla porta della camera da letto.

Il piano era smantellato. Decisi di seguire mio padre, come ripiego. Conoscere i superpoteri che conferivano quegli stivali era la magra consolazione che mi spettava. Montai sulla bicicletta di mia madre e mi misi a pedalare, tenendomi a distanza per i cigolii che produceva quel rottame. Vedevo la sagoma scura, che lasciava dietro di sé nuvolette grigie di fumo, avanzando a passi ampi. Nel frattempo mi echeggiava in mente la voce squillante di mia madre che diceva: «se indossa quegli stivali stagli alla larga», come mi ripeteva lei ogni volta, afferrandomi per il bicipite e puntandomi l’indice verso il viso.
Immaginavo mio padre abbattere edifici sferrando un calcio o produrre crateri nell’asfalto, e aumentavo l’intensità della pedalata. Lo vidi fermarsi di fronte a un enorme portone. Oltre all’insistente frinire delle cicale e un latrato in lontananza, non si udiva nulla nella via scarsamente illuminata da un singolo lampione, che funzionava ad intermittenza.

«Beppe, vè sö», ripeté più volte mio padre con voce tonante, picchiando i pugni contro il portone.
Mi nascosi dietro un muretto, le mani sudavano in continuazione e non riuscivo a tenere la gamba sinistra ferma. Dopo qualche secondo, uscì un uomo esile con una canottiera bianca; indossava una coppola, che tolse con fare minaccioso. Si avvicinò a mio padre, la distanza tra le loro facce si ridusse.
«’Ndoei i solch?», chiese mio padre.
«Ta do neent», rispose l’altro spingendolo. Si sentì la ghiaia scricchiolare sotto gli stivali di papà.

Spuntò fuori un altro uomo, dietro il magrolino, un tizio più imponente di mio padre. Dai, suonagliele a quei bastardi, papà, pensavo. In quel momento il tizio più magro sferrò un pugno a mio padre, che cadde come albero abbattuto da un lampo. L’altro lo rialzò e gli rifilò ancora un paio di pugni all’addome. Gli sta dando vantaggio, pensai. Rimasi lì nascosto per qualche minuto, mentre mio padre continuava a buscarle. Sotto la luce fioca del lampione, vidi la leggenda crollare sotto i miei occhi. I vincitori sparirono dietro al portone. Mio padre si incamminò claudicante, con una mano si premeva il petto, con l’altra reggeva gli stivali. Non mi sincerai delle sue condizioni di salute, rimontai in sella e mi avviai verso casa.

Il giorno dopo, a tavola, con la tipica insolenza infantile, gli chiesi: «papà, ma quegli stivali non ti danno i poteri?»
«Ma lasa lé, ma che poteri…», rispose mentre rosicchiava a fatica una coscia di gallina. «Le metto quando sono arrabbiato».
Mentre osservavo i baffi di mio padre unti, vidi tutte le mie dolci fantasticherie dissolversi di fronte a quella prosaica spiegazione. Tutto mi appariva sotto una luce diversa: gli stivali erano solo stivali; mio padre non era poi così forte come credevo.

Ricordo che li mise ancora qualche volta. Mia madre faceva la solita scena, come se mio padre diventasse una creatura spaventosa. Io non andai più in camera loro ad adorarli: avevano perso quell’aura magica che sembravano emanassero fino a quel momento. Pensare che ora calzano perfette, chissà che direbbe papà se mi vedesse. Sto pensando che potrei metterle domattina per andare al lavoro: potrebbero conferirmi un aspetto più autoritario.

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