Lo studio del pittore
Racconto e foto di Giuseppe Bella
C’era una volta, in questo vicolo, lo studio di un pittore. Molti decenni sono trascorsi da quei giorni; adesso vi regna un’ombra irriducibile, da cui germogliano intristite solitudini. Si percorrevano allora alcuni metri nella traversa cieca; superato il cancello, si giungeva davanti alla porta dell’unica stanza dove era lo studio, al contempo luogo di espiazione e di fervori creativi, porta sempre spalancata, con ogni temperie, ci fosse freddo o battesse la pioggia.
Il pittore nutriva una passione inflessibile, una obbedienza assoluta ai comandi dell’arte. Quando era intento alla pittura, l’ispirata frenesia dei suoi gesti trascinava la sua mente lontano, verso mondi che, con occhi ordinari, non si riusciranno mai a vedere; in uno stato quasi d’ipnosi, lo sguardo interiore sprofondato nelle immagini balenanti e negli imprendibili colori, egli era indifferente a tutto, i rumori della strada non riuscivano a lambirlo, non potevano distrarlo; non era in grado di percepire la realtà di ciò che accadeva fuori dai margini delle proprie visioni.
Così, l’ospite era esonerato dall’annunciarsi: un fantasma rispetto a lui avrebbe avuto maggiore consistenza. Il pittore apprezzava il silenzio. Poi, quando la stanchezza anchilosava la sua mano, sorgeva un sorriso sul suo volto, in una espressione segnata dalla coscienza di avere operato al meglio ma che ancora molto rimaneva da fare; ogni seduta di pittura era una semplice approssimazione all’idea che era scaturita nell’insonnia delle sue notti immaginose.
Il pittore sapeva bene di possedere quel dono che gli dei elargiscono ad alcuni uomini – a pochi privilegiati: la facoltà di creare ciò che non avrà mai esistenza nella prosa terrena, ma che durerà in eterno nel mundus imaginalis. Ma egli, come persona, era del tutto ininfluente.
Era un solitario. Non aveva importanza collettiva. Quando, a sera inoltrata, usciva dallo studio, nessuno ne notava i passi strascicati, che si perdevano nel buio delle strade. Il giorno in cui morì si era levato un vento rapinoso. La sua memoria svanì in un soffio, la sua mente si disperse come una piuma in quelle folate.
Lo studio non venne più abitato. Anno dopo anno, i muri si scrostarono, l’intonaco si staccò quasi fosse una pelle marcia; i rampicanti tentarono con il loro verde di consolare la scabra nudità della pietra venuta allo scoperto. Ma la morte del pittore aveva ormai insinuato il dolore e la tristezza in quell’umile dimora che per tanti anni era stata il luogo in cui il suo spirito si era dilatato fino a toccare i confini dell’universo immaginabile.
Adesso una dozzinale lamiera ne impedisce l’accesso. Le erbe, anch’esse dozzinali, si moltiplicano e si protendono come a impadronirsi degli ultimi resti di poesia che ancora fioriscono, infiltrati nelle nascoste fessure. L’anima del pittore si è dissolta nell’etere come un ricordo non più onorato.