Bourbon in un giro di blues. Giovanni Coppola e la Catania della disillusione e dell’omologazione
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Bourbon in un giro di blues” di Giovanni Coppola, Algra Editore, 2024
Céline amava ripetere che lo scrittore doveva costruire la sua voce, l’unica cosa che fa la differenza in letteratura, visto che ormai tutto è stato detto e descritto. Giovanni Coppola, autore di “Bourbon in un giro di blues” deve aver seguito il consiglio e non ne fa nemmeno un mistero, anche perché inserisce lo scrittore francese tra i suoi punti di riferimento.
Insomma, leggere un romanzo che non fa sconti a nessuno è cosa rara. Qui la cruda realtà di Catania, con tutto il suo sottobosco di emarginazione, criminalità e periferiche visioni, prende il sopravvento. Tra queste pagine possiamo considerare frutto della “fantasia” gli intrecci, la trama, i personaggi, ma non di certo il palcoscenico su cui si svolge la scena.
C’è un retrogusto “pasoliniano”, perché tutto, anche il malessere dell’individuo, è prodotto della fuga dalla ghettizzazione in cui la società getta e lascia morire coloro che non sono “funzionali al sistema”, perché minimo è “il potere di acquisto” del quale dispongono; figuriamoci il valore che gli può essere attribuito.
Così, Coppola crea un punto di approdo, una zona franca chiamata Charlie Brown. È un pub gestito da Felix, un uomo che sogna pur restando con i piedi per terra. In questo luogo si incontrano le storie di Manero, giornalista che denuncia i misfatti della città, ma la cui stabilità emotiva viene “annebbiata” dalla fine della sua relazione con Isabella.
Ci sono poi Cirino e i suoi scagnozzi, giovani che come i “ragazzi di vita” di Pasolini, sono consci della loro povertà, della loro condizione di subalternità; e a ciò rispondono con quella volontà di riscatto e di prepotenza che tanto piace alla Mafia.
Infine, la figura del professore, colui che credeva in un mondo migliore da giovane, che lottava tra gli extraparlamentari neri, non troppo dissimili dai rossi per metodi e idee, ma che dopo anni di carcere, nonché alla soglia dei settant’anni, si rende conto che tutto è stato una sceneggiata. Ingiustamente, ognuno ha pagato il proprio “esserCi”.
Coppola si inserisce in questi discorsi difficili, che rischiano di creare solo l’ennesimo accumulo di banalità, ma che invece lui affronta con una tale genuinità e capacità di discernimento da creare dei punti di rottura con molte tradizioni. Tant’è che alla fine di questo libro mi sono chiesto: come mai certi romanzi sono destinati alla nicchia?
Lo scrittore Coppola imbastisce un discorso ideologico che sorregge l’intero libro, nulla di politicamente corretto, ma che proprio per tale motivo chiede di essere letto ed esaminato. Le categorie “giusto” e “sbagliato”, “vero” o “falso”, qui sono spazzate via, attraverso escamotage narrativi che ben inquadrano la quotidianità; mettendo in luce certe contraddizioni italiote. Infatti, ormai certi atteggiamenti non sono più tratti caratteristici della Sicilia o del Meridione.
Lo spaesamento dei personaggi non è un effetto della società dello spettacolo, ma un nuovo stile di vita. Essere o non essere non è più il dilemma predominante, piuttosto esiste un solo imperativo: essere qualcosa a tutti i costi.
Dal canto suo, Coppola scrive un romanzo che si cala nella società attuale; poco importa che sia ambientato a Catania, perché la storia potrebbe svolgersi in qualsiasi parte d’Italia, visto che, nel bene o nel male, tutto viaggia sull’onda lunga dell’omologazione. La forza del romanzo è proprio questa: mettere in mostra l’appiattimento di ogni identità.