Miss Fallaci: i pezzi con i lustrini che hanno fatto la storia

Articolo di Rosanna Pontoriero. In copertina un fotogramma dalla serie “Miss Fallaci”
«Adesso comando io!», dice a Oriana, nella fiction,
il neo direttore dell’Europeo con tono da giornalista virile
Come definireste voi con tre aggettivi la fiction su Oriana Fallaci, “Miss Oriana”? Se non l’avete vista, ma vi incuriosisce, siete nel posto giusto e al momento opportuno. Una fiction Rai insolita, al netto di valutazione secche: accesa, colorata, poco lirica, da telefilm americano, per tanti versi. Particolarmente interessanti le prime puntate, che raccontano la giovane Oriana, giornalista di costume all’Europeo: determinata, ambiziosa, franca fino all’inverosimile e anche impaziente di affermarsi, di trattare altro, di mangiarsi il mondo, come si direbbe chiacchierando al bar. Una donna che parte alla conquista dell’America, con la scommessa di intervistare niente meno che Marilyn Monroe e diventa “Miss Fallaci”, un personaggio curioso, poco domestico. Non riesce nel tentativo epico di interloquire con la diva, nonostante metta a soqquadro tutta New York. E allora si arrabbia, si dispera, ma riesce, comunque, a portare a casa pezzi originali, unici, raccontati, vissuti, ironici, icastici.
«Il giornalismo è un affare serio»
E le fanno la guerra, le dicono con la virilità maschile dei capi servizio: «Il giornalismo non è questione di racconti, di sensazioni, pizzi e merletti», ma lei piace alla gente, il giornale vende. Questo è quello che conta. E, dunque, continua sulla sua strada: traccia un solco, definisce un linguaggio. Perché ha ragione il suo direttore, il primo, quello paterno e bonario: «Giornalista è chi possiede una voce propria e originale». Racconta di caffè americani, di gusti, tendenze, abitudini: in redazione c’è chi arriccia il naso. Probabilmente è invidioso, non sopporta il suo talento e per di più è una donna, che al suo posto non sta, imperdonabile. Lei se ne fotte altamente, neanche discute più di tanto. Al lettore bisogna far vivere i luoghi, attraverso sfumature, particolari, colori e persino odori. Resterà questo, più di qualsiasi fatto. Resteranno «i lustrini», loro malgrado. E cosa si aspettavano? Che sarebbero rimasti i verbali? No no… Chi racconta deve essere se stesso, deve dire cosa sente e pensa mentre osserva: nessun fatto è distinto dalle impressioni. Siamo uomini: animali passionali. L’obiettività è relativismo. Oriana sfreccia alla sua macchinetta, raccontando Hollywood, quell’immane parco giochi, con sagacia, umorismo e intuizione. In una epoca, nella quale il giornalismo non era un mestiere per impotenti, questo va detto. E si poteva scrivere, nell’accezione propria del verbo, poiché non esisteva il saccheggio dal web, la necessità di aumentare il traffico, l’ossessione di “caricare”, senza ascoltare, men che meno osservare. Oggi chi scrive è lento, furi moda, forse persino fanatico. Oriana potrebbe essere di ispirazione a un giovane giornalista? Nell’idea forse, nel desiderio, nella velleità, in un vagheggiamento romanzato e nostalgico, ma non nella realtà. Verrebbe asfaltato da tanti fattori: le visualizzazioni, i pochi soldi, il tempo, la disabitudine a leggere, l’idea che, in fondo, basti fare, mica saper fare, perché al navigante arriva il titolo, neanche il pezzo, figuriamoci il racconto. E un’altra miriade di fattori, che non sto qui ad elencare. Sarebbe un lavoro noioso, inutile, ma soprattutto doloroso.
Miss Fallaci: un telefilm troppo colorato
La fiction ha un linguaggio proprio, con una narrazione diversa, potremmo dire poco italiana, un taglio eccentrico. Per alcuni è troppo esuberante, poco empatica, disordinata, decontestualizzata, forte, disorganica. Se ne potrebbe discutere molto: sicuramente è un prodotto difforme, che lascia lo spettatore italiano disorientato e finisce per annoiarlo. Tuttavia, l’aver raccontato la prima parte della carriera di Oriana, quella anche meno conosciuta, è un tema importante: si propone uno spaccato, sulla stagione dei settimanali, delle interviste, delle corrispondenze lunghe. Al di là della forma, chi guarda è portato a riflettere. E non ne trae conseguenze banali, anche se avrebbe preferito un prodotto televisivo diverso.