Les Revenants

Les Revenants

Recensione di Letizia Falzone. In copertina la locandina della serie Tv “Les Revenants”

“Cosa significa essere vivi se i morti camminano tra noi?”. L’elaborazione del lutto, di solito, è qualcosa che riguarda i vivi. C’è chi ci riesce e chi no, ma in sostanza, della solitudine dei morti non importa a nessuno: sono morti appunto. In “Les Revenants”, i morti, all’improvviso non sono più tali. Ritornano, si ripresentano alla porta di casa dopo anni, come se il tempo non fosse passato, dimentichi di essere, a un certo punto, trapassati.

Il luogo è una cittadina delle Alpi francesi, un grumo di case sprofondate tra le montagne, accanto a una diga e a un lago artificiale, che qualche decennio prima ha inghiottito tra le acque un intero villaggio.

La prima a tornare a casa è Camille, una quindicenne dalla folta chioma fulva, finita quattro anni prima in fondo a una scarpata insieme a tutto il pullman della sua classe in gita.

Attorno a Camille ci sono le macerie di una famiglia divelta dal lutto: i genitori si sono separati, la madre ha una relazione con il coordinatore di un gruppo di sostegno per i parenti delle vittime, la sorella attraversa un’adolescenza scapestrata. Proprio questa sorella è la gemella di Camille, che gemella non è più: il primo incontro tra le due, lo specchio fratturato di due corpi non più identici in quanto Léna naturalmente è cresciuta mentre Camille conserva lo stesso aspetto di quattro anni prima.

Simon è invece scomparso dieci anni prima, il giorno in cui avrebbe dovuto sposarsi. Dicono sia stato un suicidio, ma lui non se ne ricorda. Da dietro la porta a vetri, osserva la fidanzata Adèle e la figlia Chloé, ed è determinato a ricominciare dal punto in cui tutto si è interrotto.

Camille e Simon sono ritornati dalla morte, e come loro sono ritornati Victor, Serge, Viviane. E, forse, non solo loro. Nella profondità della cattolica provincia francese, quando i morti si presentano all’uscio, prima di gridare all’apocalisse zombie, si parla con nonchalance di risurrezione e ci si presenta dal parroco a domandare spiegazioni.

Da un lato, non si può dire che i “ritornanti” siano zombie: non c’è modo di distinguerli dai vivi. Qual è allora, la fine, se non più la morte? Perché qualcuno ritorna e qualcun altro invece no? Mentre le acque del lago artificiale misteriosamente si abbassano, lasciando emergere gli scheletri e i fantasmi di un villaggio-cimitero, mentre l’elettricità salta a intermittenza soffocando il paese nel buio, ogni personaggio rimesta nelle cicatrici aperte della colpa e del lutto, forzando morti e vivi a fronteggiare i conti del passato e del presente.

E non è tanto interessante il fatto dei “Ritornanti” in sé per sé, non sono tanto loro il punto da focalizzare, ma come noi comuni mortali, ancora mai morti però, potremmo riaccogliere chi, senza alcuna spiegazione, è tornato dall’aldilà.

Guardare “Les Revenants”, non è dissimile dall’osservare un quadro di Delacròix o ascoltare la musica di Wagner. Lo stile supera i limiti della ragione. La fotografia cupa e malinconica, la regia cristallina, le musiche incantevoli, prevaricano la narrazione. Ancor più della storia,

infatti, il comparto tecnico impatta sul nostro umore: grazie ad esso mettiamo in campo l’intero bagaglio emotivo. Una serie tv che invita al ragionamento e al rompicapo riuscendo a coinvolgere in maniera passionale

“Les Revenants” potrebbe essere tutta una grande metafora di come la morte di una persona sconvolga gli equilibri della nostra vita: ma la nostra vita è una materia che, come l’acqua, tenderà a invadere e riempire da sé gli spazi vuoti..

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