L’Avana mi parla. Arrufat e ciò che va preservato

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “L’Avana mi parla” di Antón Arrufat, Ventanas, 2025, traduzione di Laura Putti
L’uomo pian piano si forma, passo dopo passo assembla sé stesso, incarna il luogo nel quale nasce e vive, in cui abita anche solo per un breve periodo. Di fondo, quindi, l’individuo è in sé un nulla, parafrasando Sartre, ma non un “nulla” in senso assoluto, bensì nella sua accezione di essere in divenire che si forma in base a ciò che respira, gusta, sente, annusa e tocca.
“L’Avana mi parla” racchiude un po’ questo e lo fa con piglio malinconico. Antón Arrufat è stato uno degli scrittori più importanti di Cuba. Il regime lo ha anche tenuto a distanza, ponendolo nella lista dei dissidenti; poi lo ha riabilitato. Sebbene io non sia così ferrato su questo argomento, posso però intendere che la sua voce sia stata scomoda, come si avverte tra le pagine di questo romanzo.
Arrufat non scrive un’autobiografia, anche se qui c’è molto della sua vita. Egli immagina un nipote e un nonno che perlustrano, ognuno a modo suo, la capitale cubana. La prosa è in alcuni tratti onirica, la parola apre spazi da investigare. Nulla viene definito, ma tutto si muove su un filo teso sul quale si mantengono in equilibrio amore e odio, ironia e nostalgia.
“L’Avana mi parla” raccoglie la voce della gente umile, delle persone che hanno sempre subito e che non hanno mai trovato giustizia. Nella rievocazione del passato, dalla fondazione della città fino al XX secolo, Arrufat mostra lo spirito di un popolo che combatte per non soccombere nell’indifferenza. La città è raccontata intimamente: ricchezza e povertà, grandezza e miseria sono frutto di un percorso emozionale in cui, tanto nel suo “io-adulto” quanto nel suo “egli-giovane”, l’autore raccoglie tessere di memoria.
La storia non è fatta solo di grandi eventi o di blasonati uomini, ma dalla gente comune nelle sue diverse incarnazioni. Arrufat racconta soprattutto di questi personaggi, di coloro che restano anonimi, di quelli che hanno lottato nel silenzio e nella solitudine. Ma L’Avana è anche musica: donne e uomini suonano in orchestre improvvisate, cantano nei momenti di buio e di gioia. Ciascuno è libero secondo le sue necessità, pure quando compie nefandezze.
“L’Avana mi parla” è quindi un manifesto di amore che ricostruisce una città. Arrufat mette in rilievo i cambiamenti architettonici, l’invasività delle ideologie che non “svecchiano” ma che mortificano e fanno tabula rasa del passato. La penna dello scrittore cubano non teme il confronto, non ha paura di essere smentita.
Le pagine di questo romanzo viaggiano nel profondo, sono simbolicamente guidate dall’immagine di questo nonno che appare come un “agente della coscienza”, diventando tanto demiurgo quanto astro guida del protagonista. La memoria non è qui usata come “sostanza conservatrice”, bensì come mezzo di confronto con il divenire.
Non si può fermare il tempo, non si possono arrestare i cambiamenti, ma non si può neanche sottomettere ogni cosa, persino la propria esperienza, alle dinamiche delle epoche. C’è sempre qualcosa che vale la pena di proteggere e di salvare, ed è forse questo il messaggio che accompagna questo romanzo dal principio alla fine.