Il rifiuto. Quarta e ultima parte

Racconto di Giuseppe La Licata

Il giorno premeva luminoso sulle sue guance e i pensieri ripresero liberi a migrare. Lasciò scivolare lo sguardo svogliato sul piccolo cumulo di rifiuti, il raccolto dell’ultima spedizione; tra questi giaceva irrigidito e segnato da vistose screpolature un tubo di gomma, uno di quei tubi scuri che alimentano le vecchie cucine a gas. Spinse la mano in avanti, ma prima che la punta delle dita raggiungesse la presa, lo scatto di un grosso piede aveva già quasi sotterrato, come un orrido verme nero, il piccolo molle tubo. Senza apprezzabile sorpresa, ma con la cautela di chi sa di imbattersi in qualcosa che si va evolvendo, osservava la volgarità di quell’enorme scarpa di pelle lucida. Non alzò nemmeno lo sguardo quando dall’alto precipitò con timbro falso e rauco la domanda – Il signor Olaf? – , più che una domanda in verità suonava come la pretesa di un riscontro. Davanti a lui si ergeva in affettata posa burocratica il Nano, insaccato e compresso come una salsiccia dentro la pelle consunta di un abito scuro ma con i segni di una curiosa umanità nel volto per via di una cicatrice che dalla tempia sinistra raggiungeva il mento. Incaricato ufficiale delle istruttorie di riconoscimento il Nano, castigato alla pazienza dal suo peso e dal suo lungo mestiere, provò senza esito a replicare la domanda. Se una risposta seguì, quella scelse la forma di un silenzio spento e invertebrato, il peso inerte di una consapevolezza ammutolita; e solo quando gli occhi dei due intercettarono un fragile punto d’incontro sembrò chiaro ad entrambi che infinite e segrete sono le ragioni per cui un uomo può amarne un altro ed egualmente disprezzarlo; toccò al Nano – che come si potrà intuire diede prova di essere, anche in questa circostanza, all’altezza del caso – di porre fine a quel silenzio ingombrante accennando ad una smorfia che procurò alla cicatrice la forma instabile di un sorriso; l’altro non mancò di ricambiare quando, senza distogliere lo sguardo dal suo interlocutore, si trovò a ridisegnare sul terreno la linea arrugginita di quello sfregio per disvelarne così il segno glorioso di un’antica quanto improvvida disobbedienza; Una disobbedienza che profumava ancora di sana cospirazione ma che di certo il Nano si trovava ora obbligato a risarcire con l’esercizio della sua grigia e delicata mansione. Nel vasto e immobile panorama il silenzio aprì la sua porta, il Nano fiutò l’istante e con preciso senso d’orientamento seguì l’ago della bussola nella direzione di un punto scuro e luccicante fermo sulla linea dell’orizzonte; dietro di lui l’altro e sopra di loro due nuvole grigie e sfrangiate appena spinte da un soffio di vento, segnavano il tragitto come l’ombra dei due fantasmi.

Raggiunsero la vettura. Era scura, goffa come una vecchia blatta, ma più allegra e seducente per via di due grandi occhi cromati, incastonati agli angoli più esterni del muso della bestia a quattro ruote. Elemento non trascurabile della scena devono considerarsi i due lampi di luce sparati dalle orbite dell’insetto che con l’effetto fulminante di un flash salutavano ora l’arrivo del Nano. Agli occhi del nostro uomo l’evidente intesa tra il Nano e la Blatta – esemplari accomunati dalla commovente mostruosità della propria specie, ma non meno dalla necessaria complicità dei rispettivi uffici – restituivano per deduzione l’idea dell’organismo sociale perfetto, e con un certo stupore vi si poteva anche veder avvalorata l’ipotesi che accidenti momentanei e irrilevanti del paesaggio a noi esterno – posto che abbia senso interrogarsi sulla sua natura – sono in grado di spiegarci il segreto intreccio delle nostre più intime e complicate relazioni, relazioni che rivelano affinità vitali tra uomini e cose, tra cose e uomini; così per quanto distaccato e impassibile fosse per definizione lo sguardo del nostro osservatore, questi non riusciva in cuor suo a sottrarsi al piacere di condividere gli affetti di quella minuscola comunità in azione. Con un’espressione visibilmente compiaciuta, come un ragno che osservi soddisfatto la fitta e sottile trasparenza della sua opera, il Nano si accingeva ora ad aprire la portiera posteriore invitando l’uomo ad accomodarsi. Olaf prese posto sul lato sinistro ed il Nano lo seguì lasciandosi sprofondare sul sedile con la piacevole gravità di chi ha conseguito un secondo traguardo; Ad un cenno di comando degli occhi del Nano, la vettura – per quanto priva di conducente, di volante e di quella strumentazione minima comunemente indispensabile al governo di un normale mezzo di trasporto – si mise in moto confermando anche agli occhi del nostro ospite la segreta intesa tra i due complici. Con trionfante e flemmatica andatura la Blatta prese il largo fendendo un panorama privo di variazione alcuna, perfettamente immobile, fisso ed inquieto come il segno di una oscura premonizione; ogni movimento era svuotato di movimento, ad ogni spostamento non corrispondeva alcuna percettibile modificazione del luogo e dello spazio; lo stesso specchietto retrovisore restituiva ostinato la stessa inquadratura. A ben vedere la natura circostante e tutti i suoi elementi sembravano colti da un’irreparabile amnesia che sembrava ne avesse impedito ogni pur minimo segno di vita. Al nostro uomo tutto ciò ritornò come il tuffo naturale in una nuova zona d’ombra, come l’epifania di un viaggio verso territori intransitabili. Ogni viaggio – si interrogò – esiste solo in quanto si dà una destinazione, o forse ogni destinazione è li ad aspettare il suo viaggio e i suoi passeggeri, o forse ancora ogni destinazione é già il suo viaggio? Non si curò ancora una volta né delle domande né della possibile faziosità delle risposte, si girò ad osservare il Nano, anche lui e la sua cicatrice sembravano felicemente congelati in un’espressione ironica e beffarda, poi sporgendo lo sguardo dai finestrini della vettura l’increscioso ordine muto di tutte le cose gli lasciò presagire la generosa rivelazione di un inevitabile disordine.

Sentiva ora con certezza che il viaggio era alla fine e che la solitaria crociera – in cui si era avventurato – era prossima al suo ultimo giro di boa; riconobbe nella Blatta e nel Nano gli affettuosi traghettatori verso l’ipotetico approdo. Li ringraziò per questo con un sorriso degli occhi. Ogni cosa seguiterà ad intricarsi ancora di più se non ci si affida alla vela e al suo vento, ogni cosa si districherà da sola se si segue pazientemente il filo dell’orizzonte – tutto questo pensava – mentre le mani presero ad armeggiare dentro le tasche con l’usuale delicatezza di chi ha confidenza con aghi, schegge ed esplosivi; riconobbe al tatto l’incommensurabile varietà del suo raccolto, delle sue lunghe spedizioni, ricostruì la mappa delle peregrinazioni notturne, rivide i labirinti, le scale, le gallerie, le geometrie dei luoghi di quella città che un tempo gli era stata madre, ne udì ancora il respiro, quel respiro affannato che non lo avrebbe più raggiunto e solo allora per quanto i pensieri affiorassero con grande fatica si preparava all’ultimo incontro con se stesso. Lì nelle stanze private dove piccoli uomini impazziti si vendicano delle proprie paure, lì avrebbe svuotato dalle sue tasche le verità custodite in ogni più piccolo rifiuto, la verità nascosta nel segreto di ogni più piccolo gesto, di ogni frammento della sua improbabile esistenza.

La Blatta e il Nano si erano ormai inabissati nel fondo di questa storia consegnando il nostro eroe al suo nome. Spalancò gli occhi dalla meraviglia quando si vide venirgli incontro con la valigia, il passaporto e la carta d’identità. Per pigrizia non mosse nemmeno un passo. Pensò che non avrebbe mai fatto determinate esperienze; pensò ancora che la sua vita sarebbe trascorsa egualmente senza quella certa esperienza. Il vento riprese a spazzare la polvere lungo la lastra dell’orizzonte. All’improvviso non riconobbe nemmeno se stesso. Quando lo trovarono giaceva dietro la porta. L’unica porta rimasta aperta. Aveva già deciso di diventare un altro.

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