Cartoline
Di Antonella Perrotta
E, un giorno, seduti intorno a un tavolo, sfoglieranno antiche cartoline, ma i volti di chi vi compare saranno estranei, le loro vite consumate in uno sbadiglio…
Cartolina Uno
Calabria, ottobre 1996
Una nave traghetto è ferma al porto. Inghiotte l’uomo come la bocca di un pescecane. Una donna è sul molo d’imbarco. Sta di profilo, i lunghi capelli legati disordinatamente in una coda, lo guarda allontanarsi e si asciuga gli occhi col dorso di una mano. Lui sta di spalle e non si volta indietro.
È un addio.
Il mare s’intravede sullo sfondo. È in tempesta, terrorizzato da Scilla e Cariddi. Fata Morgana è nascosta, le due punte di terra distanti, incapaci d’incontrarsi.
“L’amore non esiste. È soltanto il compromesso migliore. Così, mi hai detto, nient’altro. Che stronzata!” sta scritto sul retro in penna rossa. La scrittura è femminile. È lei a scrivere parole. Tentativo ingenuo di supplire a quelle che, probabilmente, lui non le ha detto ché, per alcuni, le parole non servono e la lingua non ha interesse a pronunciarle, uno più uno fa due e non c’è spazio per i sentimenti e la fantasia, il cuore batte soltanto per mantenerci in vita e la vita offre promesse cui bisogna prestare ascolto, non importa cosa o chi lasciamo indietro, l’importante è amare se stessi.
“E il sentimento, la cura, il tempo che ti ho dedicato? Hai preso tutto e non mi hai lasciato nulla. Non so ancora se e quando il mio cuore potrà guarire” lei ha scritto più in basso.
Presto, la nave traghetto avrebbe toccato l’altra sponda. La sirena avrebbe suonato dinanzi alla stele della Madonnina dorata che, sul torrione dell’antico forte san Salvatore, saluta le navi all’ingresso nel porto. Lui sarebbe sbarcato e avrebbe continuato a mediare la vita, col naso e la bocca tappati e il cuore in stand by. Lei l’avrebbe consumata, strappandosi di dosso le carni e imparando a ricucirle. Ma potrebbe anche non essere andata così.
Cartolina due
Sicilia, luglio 1992
La strada è infuocata di sole. Soldati in tenuta mimetica, con gli elmetti in testa e i mitra in spalla la presidiano. Un paio, i mitra, li hanno puntati verso un nemico invisibile.
Una camionetta militare s’intravede sullo sfondo, dal lato sinistro, di fronte all’edificio della Corte d’Appello. I passanti la scansano, scansano anche i soldati, gli occhi rivolti in basso, sull’asfalto. Uno di loro sta in primo piano, fermo sul marciapiede. Sta leggendo il Corriere della Sera, la testata si vede chiaramente e anche il titolo di prima pagina: “Massacro, ucciso Borsellino.”
Un gruppo di studenti s’intravede sulla destra. Sta attraversando l’ingresso della facoltà di Giurisprudenza. Uno di loro è voltato verso la biga trainata da quattro cavalli che svetta di fronte, sull’edificio della Corte. Magari, starà chiedendosi dove sta andando davvero, mentre respira l’aria gravida di quella creatura che non si sarebbe chiamata speranza, ché la speranza era già morta a suon di tritolo e non di aborto spontaneo si trattava, ma di assassinio.
E il sangue e il malaffare e il crimine, originati dalla terra e dal sale, da greti asciutti, da guerre civili tra patrùna e viddàni, lo sovrastano più di quella statua.
Cartolina Tre
Sicilia, novembre 1991
Una cucina arredata con poco: un frigorifero, qualche stipo appeso alle pareti, un piano cottura senza cappa con quattro fornelli, un lavabo con un solo acquario. Al centro della stanza, un tavolo. Su di esso, un’arancia, una bottiglia di sugo di pomodoro di quelle fatte in casa, un libro chiuso, “Manuale di Diritto Costituzionale – Temistocle Martines” si legge sulla copertina, un blocco per appunti di fianco.
Una pistola è posata sul tavolo, tra l’arancia e il volume. Qualcuno ha provato a coprirla con un foglio di giornale, ma si distingue chiaramente il calcio. Il balcone sul fondo ha il vetro in frantumi, come per una deflagrazione. Il volto di una ragazza s’intravede da un lato, copre soltanto il bordo della cartolina. Sembra concitato.
È una casa di studenti. Chissà, cosa è accaduto. Risale soltanto il sentore della polvere da sparo, mischiato a quello del sugo fatto in casa dalle mani di una madre che hanno attraversato il mare in valigia.
Cartolina quattro
Sicilia, giugno 1989
La strada è ampia, luminosa, fiancheggiata da alberi ad alto fusto. Molti, i passanti con sandali e vestiti leggeri. Ai lati del marciapiede, donne di etnia Rom, sedute in terra con i figli di fianco, come cagne con i cuccioli. Hanno tutte i capelli rossi, una tinta slavata fai da te che ricorda il pelo di un animale, gonne lunghe multicolor, sandali aperti, calzini alla caviglia, scialli con frange sulle spalle. Qualcuna allatta al seno, ma s’intravede un biberon pieno posato a terra.
Sono ragazzine dal volto scuro, gli occhi grandi e neri come le pietre dell’Etna, giovani madri nate già donne. Lo sguardo è posato sui gagè che sfilano loro davanti, composti.
Rom, loro. Gagè, gli altri, fatti della stessa pasta degli assassini di Cristo, nemici contro cui mettere in atto strategie di resistenza, persecutori di Romanì arsi sul rogo nel tempo dei tempi e massacrati in massa a Birkenau. Lo sguardo delle giovani è ironico e inclemente ché fregare i gagè è necessario, è una vendetta tramandata col sangue.
Le madri stanno lì, come pietre al sole, lastricato sul lastricato. Tendono la mano mentre i loro figli succhiano latte di strada.