Tra le Scrittrici Maledette: Renée Vivien

Articolo di Letizia Falzone

Passeggiando tra i viali alberati del piccolo cimitero di Passy, all’ombra della torre Eiffel, nel cuore della capitale francese; un mausoleo familiare d’ispirazione gotica si confonde tra le altre tombe. Tra i fiori impalliditi dalla pioggia e dal vento qui posate da occasionali visitatori, c’è sempre un mazzo di violette. Sul marmo è inciso il nome di una giovane donna, morta intenzionalmente, e una poesia da lei stessa scritta e scelta come epitaffio.

“Ecco, in estasi è la mia anima
Poich’ella, placata s’addormenta
Avendo, per amore della morte
Perdonato questo crimine: la Vita.”

Pauline Tart, in arte Renée Vivien
1877- 1909

Questa è la sua storia.

Pauline Tart nacque nel 1877, in una città, Londra, e in un Paese che non sentì mai suoi. Era la primogenita di una coppia agiata e colta, inglesissimo il padre, americana la madre. Fin da piccola viaggiò molto, non soltanto oltre i confini geografici della sua isola, ma anche di quelli mentali e borghesi, per lei così ristretti e ingiusti; ma soprattutto viaggiò grazie alle pagine dei libri che tanto amava.

Trascorse la maggior parte della sua infanzia e adolescenza nei collegi di Parigi e Londra, leggendo Baudelaire in segreto e rimanendo infettata dalla febbre romantica e affascinata dall’opera del poeta francese e dallo stile di vita che si viveva nella capitale parigina.

Fu durante la sua permanenza in un collegio a Fontainebleau che conobbe Violette Shilitio. Pauline fu stregata da quella donna che come lei era attratta dalla solitudine ed era nostalgica di epoche mai vissute, che già in giovanissima età ricercava la bellezza nella musica, nella filosofia e nelle parole studiando Dante in italiano, Platone in greco. Subito nacque un’amicizia molto forte, basata sulle passioni intellettuali e sulle letture, ma anche sul rifiuto della società borghese a cui entrambe appartengono, che esigeva la purezza femminile ma consente all’uomo ogni licenza.

Violette era perfetta agli occhi di Pauline, che essendo poetessa la trasforma in un Ideale. Divenne amicizia pura e assoluta, divenne amore casto ed eterno, divenne Musa.

Si trasferì a Parigi appena compiuti i ventuno anni, grazie all’eredità del padre che le permise di condurre una vita di sfarzi e lussi. Per sconfiggere la cattiva stella che l’aveva fatta nascere inglese, senza che potesse apprezzare l’Inghilterra, scelse per lei un nuovo nome: Renèe Vivien. Renèe, a indicare la rinascita. Vivien: perché ora poteva finalmente sentirsi viva.

Fu Violette a presentarle, una sera dopo un’uscita a teatro, una sua amica d’infanzia, Natalie Clifford Barney, anche lei scrittrice, femminista, donna colta e libera ed apertamente lesbica. Era rimasta affascinata dagli occhi d’acciaio mortale, acuti e azzurri come una lama di Vivien. Fu l’incontro destinato a dare una svolta decisiva alla vita e alla carriera poetica di Renèe.

Se Violette era solitudine e nostalgia, e amore nella sua forma più pura, Natalie era vitalità, fremito, ambiguità.

Natalie Clifford Barney aveva letto negli occhi della giovane poetessa inglese la tristezza e malinconia della sua adolescenza tormentata e aveva accettato la sfida. Volle insegnarle la vita, al culto del corpo, il gioco, l’ambizione. La portò a numerosissime feste, dove le presentò i maggiori intellettuali dell’epoca. Vivien cominciò a presentarsi alle feste indossando abiti maschili, che accentuavano la sua androginia, con l’elegante scrittrice americana al suo braccio.

La vita di Vivien si rispecchiava nella sua poesia. I suoi primi scritti erano spesso firmati come R.Vivien o Rene, nella forma maschile, e la giovane poetessa si divertiva a giocare sull’ambiguità e l’androginia, sfruttando la sua perfetta conoscenza del francese, molto più musicale, ma anche con una distinzione di genere preclusa alla lingua inglese. L’oggetto della sua poesia erano sempre donne. Si divertiva a confondere.

Natalie Barney presentò a Vivien un’altra donna che avrebbe segnato per sempre la sua produzione poetica, Saffo. Nonostante già conoscesse la poetessa di Mitilene dai suoi studi scolastici, con Natalie riscopre una Saffo diversa, libera dall’immagine di eroina tragica costruita per lei da un universo maschile, sadica e manipolatrice che amò le donne, ma destinata alla morte per un amore maschile non corrisposto.

Renée cantò il suo amore per le donne, percorrendo tempi e superando traguardi, senza mai voltarsi indietro. Contribuì non soltanto a sdoganare l’amore saffico, ma mise in cattiva luce secoli di sopraffazioni maschili. Incorniciata da una lunga chioma di capelli biondi e ammantata da un incanto non comune, la poetessa è particolarmente sensibile al canto della morte, una sorta di richiamo che si fa desiderio e infine aspetto legato intimamente all’amore. Attraverso endecasillabi, sonetti e poesia in prosa, canta l’amore, sovente tribolato, per la figura femminile, sempre nello stile parnassiano e ottocentesco che ha caratterizzato tutta la sua produzione letteraria, fatto di simboli e di donne che si perdono in sospiri d’amore che vivono soltanto per essere amate. Con la sua penna graffiante infatti ebbe il coraggio di celebrare la donna che amava senza filtri e non mascherò mai la sua omosessualità.

Un giorno del 1901, una lettera le annunciava la malattia di Violette. Febbre tifoidea. Renèe corse al suo capezzale ma arrivò troppo tardi. Non si perdonò mai questo ritardo, e nemmeno l’averla trascurata durante il periodo della sua relazione con Barney.

Cominciò così il lungo suicidio che fu la seconda parte della sua esistenza.
Nella sua poesia cominciarono a diventare sempre più frequenti i riferimenti alla Morte, la morte che guariva da tutti i ricordi. L’amore divenne sofferenza e la Morte si colorava di viola e si accompagnava a mazzi di violette. Il suo personale omaggio a quel primo amore scomparso troppo presto.

Cominciò a vestirsi sempre di nero e viola e tra le mani intrecciava sempre un mazzolino di violette. Questi vezzi nascondevano un’anima inquieta: l’inquietudine di chi si sente fuori dal mondo ma vorrebbe essere al centro.
Le venne dato il soprannome che l’avrebbe accompagnata per il resto della vita, La Musa delle Violette.

Decostruisce e reinterpreta l’immaginario poetico decadente e i suoi accessori: pallide donne chimera, metamorfosate in animali, che si chinano sulle loro giovani prede, infliggendo loro voluttà tormentose, gigli che languiscono e un vero e proprio culto della morte. Ma se lo stile è ottocentesco, nuovi sono i contenuti: l’amore per le donne, il rifiuto dell’eterosessualità e la creazione di un universo poetico interamente femminile. Vivien scrive anche in prosa, ed è soprattutto nei racconti che dà voce a una sensibilità del tutto moderna, a un femminismo tormentato e violento che si trama di accenti satirici e surreali e parla in un linguaggio crudo intriso di humor grottesco. È insomma una scrittrice complessa, che non è mai stata dimenticata del tutto e che in anni recenti è tornata a essere oggetto di riscoperta e di studi che ne mettono in luce la multiforme ricchezza.

Venne presto messa alla gogna artistica, per il suo stile oramai fuori moda, perché la sua omosessualità, le sue eccentricità erano accettabili per una donna di malaffare o del mondo dello spettacolo, non certo per un’ereditiera, per di più di bell’aspetto.

Renée Vivien romanzò la morte e, in una sua visita a Londra nel 1908, profondamente abbattuta e oberata dai debiti, tentò il suicidio ingerendo una quantità eccessiva di laudano. Si distese sul divano, tenendo un mazzo di violette sul cuore. Il tentativo di suicidio fallì, ma in Inghilterra contrasse la pleurite e tornò a Parigi considerevolmente indebolita. Inoltre i digiuni prolungati, l’alcol e le droghe assunti in quantità sempre più massicce, la trasformarono nell’ombra di se stessa.

Una serie di paralisi le colpì gli arti, costringendola ad utilizzare un bastone. In tutto questo tempo non smise mai di scrivere. Poesie, lettere, racconti. Con una calligrafia di giorno in giorno più incerta, sempre al buio, appena illuminata dalla luce di poche candele.

Morì il 18 novembre 1909, all’età di 32 anni, a causa della pleurite e dell’indebolimento fisico dovuto ai frequenti digiuni. La sua morte fu riportata a quel tempo come suicidio, ma fu probabilmente il risultato di un’anoressia nervosa aggravata dalla pleurite e dall’alcolismo. 

Natalie, che non si era mai rassegnata alla separazione, bussa alla porta di Renée con in mano un mazzo di violette, si sente rispondere dal maggiordomo che le apre: “Mademoiselle vient de mourir” (La signorina è morta or ora).
Renèe Vivien si era ricongiunta alla donna amata, la Morte l’aveva accolta nel suo abbraccio tanto a lungo desiderato. Si era finalmente liberata. 

La breve vita di Renée, durata appena trentadue anni, è variegata e piena di chiaroscuri: vi compaiono una liaison con una ricchissima baronessa della casata dei Rothschild e una con la moglie di un diplomatico turco, che Renée visita quando passa da Istanbul; importanti amicizie maschili, soprattutto quella con il suo mentore, il poeta Jean Charles-Brun; numerosi viaggi in terre lontane, una casa trasformata in tempio di arte orientale, eccessi di alcol e anche di sesso, frequentazioni di prostitute, anoressia, depressione, tentativi di suicidio; una ricca produzione scritta che comprende una ventina di raccolte di poesie, diversi libri in prosa, migliaia di lettere edite e inedite. Non solo poeta, ma intellettuale, studiosa e donna profondamente ribelle, Renée in vita non si sentì riconosciuta, bensì condannata dai contemporanei, “inchiodata alla gogna” e frustata dai loro insulti; e coltivò, con la sua sensibilità esasperata, un senso di fallimento e autodistruttività che certamente contribuì alla sua fine prematura. Dirà più tardi Natalie: “la sua vita è stata un lungo suicidio, da cui ho cercato invano di salvarla, ma non era forse predestinata, visto che tutto, nelle sue mani, diventava Cenere e Polvere?” (Cendres et Poussières, 1902, è il titolo di una raccolta di versi di Renée.)

Renée Vivien, trasformatasi negli anni in un vero e proprio mito, ha ispirato e ispira curiosità e appassionato interesse; sulla sua tomba al cimitero di Passy vengono ancora oggi deposti i suoi fiori preferiti, le violette. Si dice che a lei risalga la scelta del viola come colore simbolo dell’omosessualità femminile.

Quello che resta della poetessa delle Violette è un mondo ovattato, una vita appassionante, struggente e le sue poesie, sofferte, cariche di amore, eros, desiderio e sofferenza  meriterebbero di essere riportate alla luce restituendo dignità ad una donna che andando contro tutto e tutti aveva avuto il coraggio di essere sé stessa, amare, vivere, viaggiare e soprattutto scrivere.

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