Carlo
Racconto di Pasquale Allegro. Foto di Martino Ciano
“A chi somigli di più?” gli chiede la terapeuta curiosa. “Non l’ho mai capito” risponde lui, “credo di somigliare a entrambi i miei genitori”. La fissa con i suoi occhi tristi e scuote la testa. “Non mi faccia domande su di loro, non ancora”. Lei gli sussurra tenere parole rassicuranti, di non avere paura, lei è lì.
Carlo le è stato raccomandato da un collega, un caso per lei interessante, un ragazzo adottato all’età di sei anni, che ora di anni ne ha ventuno, un giovane studente in preda a una violenta depressione nervosa. Insonne, solitario. Lamenta crisi di angoscia e svariati disturbi oppositivi che gli impediscono di relazionarsi con gli adulti. E di essere felice. La dottoressa fin dal primo appuntamento è cortese, persino amabile, gli chiede cosa lo tormenta, “Detesto parlare di me” risponde lui in un sibilo che esce appena dai denti serrati. Ma dovrà necessariamente rivelarle delle cose importanti, intime, “Non credo che lei potrà aiutarmi” esordisce però alla seconda seduta, ma è tornato, anche calata in un silenzio pesante e ostile la sua presenza è una risposta. “Mi chieda pure”, si fa poi conciliante. “Potremmo parlare dei suoi genitori” incalza lei. Immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, lontano, “Vede dottoressa” confessa, “mia madre, la mia vera madre è morta quando avevo tre anni, e mio padre, il mio vero padre correva al mio fianco, io bambino e lui che mi tirava, fino a quando non mi ha abbandonato dicendomi Se dovessi fare tardi non avere paura, qualcuno ti aiuterà”.
La dottoressa richiude il quaderno degli appunti, per quel giorno hanno finito, ha compreso perché parla molto di suo padre e non abbastanza di sua madre, ha vissuto troppo poco con lei. Forse adesso la vede nelle notti, magari ferma sulla soglia, d’estate come d’inverno, sempre con gli stessi vestiti. Il silenzio di Carlo è intollerabile, è come abitato dal silenzio. Un giorno al ragazzo è comunque sfuggito di aver sentito suo padre confessare che non era ricco, che aveva soltanto il denaro sufficiente per non morire di fame, che era chiaro che lo avrebbe messo alla porta, “È un po’ quello che succede a me adesso” le rimprovera improvvisamente, “io cerco di dimenticare mentre lei, dottoressa, fa di tutto per abbattere i muri dell’oblio”. Si pente di averle raccontato queste cose, anche del cielo azzurro lieve e rassicurante che ricorda sopra il paese lituano in quel giorno maledetto, eppure niente vento quel giorno, la terra come placata aveva accolto quel sacrificio, si pente di averle raccontato di sentire il suo destino sgretolarsi, di camminare all’indietro e sentirsi svuotato, di chiedersi “Qualcuno che era con me, dov’è ora?”.
Carlo ha mille cose da tacere, si rende però conto che aspetta ancora qualcuno, ed è aspettando questo qualcuno che perde la sua innocenza. Vorrebbe raccontare alla dottoressa che è proprio allora che la porta si apre e arriva la madre, con in mano una girandola di carta, e che lui come al solito resta in piedi con un pallido sorriso, abbassa gli occhi. Il silenzio si fa insopportabile. È la terapeuta a spezzarlo, “A cosa pensi?” gli chiede, “Che cosa vuoi? Vuoi vivere?”. Si è resa conto che Carlo le sfugge, lui si aggrappa alla sua malattia, se lei gli pone domande per far leva sulla sua memoria lui non va mai fino in fondo. “Dottoressa” si espone finalmente, “dovrei forse parlarle dell’abbandono? Il punto è che avrei dovuto guardare negli occhi mia madre, aggrapparmi al braccio di mio padre”. Oppresso da quel senso di colpa, in ogni adulto che incrocia, in parco o a scuola, sono i suoi veri genitori che vede. Dove rifugiarsi, dove nascondersi da sé stessi? Per molto tempo non è stato capace di piangere. La terapeuta intuisce una certa tendenza a voler distruggere quella famiglia rinunciando a scavare nella memoria. Che cosa ci fa lui là dentro se non vuole ricordare? E allora lo rende presente, lo invita ad avvicinarsi, a chiudere gli occhi, a rinviare il tempo, lo fa con una voce profonda, melodiosa, carezzevole, la voce di qualcuno che lo sta cercando. Prima di accettare di portarsi quella voce dentro il racconto, Carlo le chiede “E lei cosa farebbe dottoressa?”. “Ti prenderei la mano” gli risponde lei, “sì la mano, nient’altro”.