L’inutile scrivere
Articolo e foto di Daniela Grandinetti
Perché scrivo? Me lo chiedo spesso. Più vivi all’interno del mondo dell’editoria, a qualsiasi livello, più ti accorgi che è un mondo chiassoso, sovraffollato, complicato, non esente da miserie che non accosteresti mai al termine “cultura”. Un combattimento a mani nude.
Non scrivo per me stessa, né per gli altri, né per fuggire dal mondo: uno dei miei autori preferiti, Jack London diceva che non puoi aspettare l’ispirazione, devi andarne in cerca con un bastone. Dopo aver usato per molto tempo un bastone per camminare su sentieri impervi di montagna, proprio quel tipo di bastone lì mi è piombato tra le mani. E stando seduta ai margini di un bosco su un’altalena che mi aiuta a domare la follia non ho cercato cose da dire o storie da raccontare, sono loro ad aver trovato me. E quando arrivano spingono così forte da diventare spine nella gola, tanto da non poter essere ignorate. Le storie sono immagini, le immagini diventano parole, le parole si dispongono in una struttura e diventano libro e quando ciò accade sono altro da te che non sai che fine faranno, dove andranno, quale guerra dovranno combattere, su chi si poseranno.
Accade poi che ti invitino a una rassegna scolastica di una scuola superiore. All’inizio, da insegnante quale sei, sei perplessa perché con Luna Pietra hai raccontato una storia che ti sembra poco adatta per quell’età, ma conosci bene i meccanismi, sai che i ragazzi sono guidati dagli insegnanti, non sempre leggono interamente il libro e quando ti trovi su una pedana in una sala gremita di adolescenti felici di stare lì perché non fanno lezione (e tu potresti raccontare barzellette o parlare di filosofia uguale sarebbe), hai tutti quegli sguardi puntati addosso e ti coglie un’inaspettata ondata di curiosità che quasi ti sbatacchia al muro. Ti senti nuda, in un gioco di ruoli capovolti.
Un gruppo di ragazze manovra lo schermo: per ogni estratto in lettura hanno costruito un percorso per immagini perfettamente calibrato sulla storia. Guardo lo schermo, stupita, ma osservo anche gli altri, giù in platea, e mi sorprende che nessuno stia spippolando su una tastiera qualsiasi. So che gli insegnanti sono stati in gamba, ma con il passare dei minuti, con l’incalzare delle domande realizzo che “caspita”, i temi di questa storia li hanno “acchiappati” e io lo so che se riesci a trovare quel bandolo della matassa si apre una voragine di mani piene di dubbi e dilemmi in quegli adolescenti che noi vogliamo amorfi sui social.
Donne, violenza, uomini, abbandono, esempi sbagliati, riscatti, fughe, aborto, libertà.
“Come possiamo salvarci dagli adulti, con questi esempi?” Mi chiede un ragazzo, senza bigliettino in mano.
“Lei ha parlato di libertà, ma secondo lei come si fa essere liberi?” Mi chiede in chiusura un altro ragazzo che parla a malapena l’italiano.
“Che domanda difficile!” rispondo.
La storia, il libro, sono un pretesto e io che sono abituata a dialogare con adolescenti da insegnante e da relatrice/presentatrice dei libri altrui, avverto un forte senso di responsabilità della mia presenza in quel luogo e in quel ruolo. Devo riuscire a calibrare emozione e razionalità ed essere all’altezza delle loro domande. Non è facile per niente, decine e decine di presentazioni e sono emozionata come una pivella.
“Siate ribelli”. Mi scappa a un certo punto, e subito dopo realizzo che se non do una spiegazione a quello che ho detto potrei essere fraintesa. Ho il viso infuocato e raddrizzo il tiro.
La ribellione è il primo atto di crescita, e noi ve lo stiamo togliendo, è amare un uomo che non esiste ancora, vorrei dire con Camus. Ma non lo dico. Però quando scendo dalla pedana me ne ritrovo tanti intorno. Sono un’insegnante e non sento i fili delle marionette, adesso come prima, durante l’incontro. Una ragazza ci tiene a dirmi “io il libro l’ho letto e mi è piaciuto” non allieva, ma lettrice.
Poi si fa avanti un’altra: “Questo lo abbiamo fatto per lei”. E mi consegnano un disegno, loro, future grafiche, in cui due protagoniste del mio romanzo si abbracciano oltre la superficie di uno specchio: è la sintesi perfetta della mattinata appena conclusa. Quel senso smarrito (e che so smarrirò nuovamente domani), quella domanda: perché scrivo? in quell’istante preciso non ha più la minima importanza.
In fondo, scrivo per ribellione.