Gli ausiliari di Gabriele Esposito

Recensione di Alessio Barettini. In copertina: “Gli ausiliari” di Gabriele Esposito, Stc Edizioni
Gli Ausiliari, di Gabriele Esposito, ci racconta una storia che ha la particolarità di essere passata, presente e futura allo stesso tempo. È un’allegoria sulla libertà degli uomini in rapporto con la società e, in senso più esteso, con la politica. Anche per questo il personaggio che narra la storia parla a un “voi” indistinto: i lettori? Il suo pubblico? Gli altri uomini?
Chi narra la storia si presenta subito come qualcuno che conta, qualcuno dentro la politica, in costante relazione, dunque, con i propri elettori. Il “voi”, pur alternato con parti di terza persona, è invadente, onnivoro, grandefratellesco. Si impone. Crea una distanza che il lettore vorrebbe colmare, ma non può, deve restare schiacciato da un modo di narrare non convenzionale, prima affascinante, ma serpentesco, infido. Ma c’è altro che si presenta in modo anomalo: i nomi dei personaggi, il Cardinale, il Generale, il Porco, e poi le azioni, abiette, squallide, eccessive, subito gettate in faccia al lettore che non può fare niente, se non osservare una serie di scene depravate moralmente e umanamente come fossero normali.
L’ambiguità esplode con una scrittura in crescendo. Tutto sembra risuonare di interesse, di manipolazione, di esibizionismo e spettacolarizzazione, ovvero di tutto ciò che in modo triste oggi la politica è, almeno in certa misura, nell’immaginario, collettiva. Quella misura è indagata da Esposito con minuzia e realismo.
A quei personaggi esposti, altolocati, importanti, o semplicemente gonfiati, si contrappongono quelli “normali”, Gloria, Alfredo, Gonzalo, anzi Gonzalo e Paco, immersi in una normalità che è raccontata nella lente del potere e quindi vista come inferiore, squallida, povera. E povera lo è, dato che Gonzalo sarà costretto, entrando in relazione con quella parte del potere, a compiere azioni che lo porteranno sempre più lontano, e finire a odorare la seduzione del potere, anche per proteggere Paco, sempre impegnato nel giocare un videogioco, i cui livelli ricordano l’idea di un percorso obbligato che tutti i cittadini sono chiamati comunque a svolgere.
Inversa la parabola di Gloria, che dal potere si allontana gradualmente ma solo per esigenze strumentali. Diversamente opposta la posizione di Alfredo, sorta di alter ego di Gonzalo, anche se molto diverse sono le posizioni dei due nell’economia generale del romanzo, o per meglio dire, nell’economia generale dei rapporti che si possono intrattenere con il potere, perché in fondo questo è il punto conclusivo, questa la domanda che Esposito sembra porre a tutti i lettori, e cioè che rapporto ci costruiamo noi, con esso, come lo difendiamo, come lo abitiamo. In altre parole tutti i personaggi si ritrovano loro malgrado a essere ritratti nelle loro relazioni con il potere, nella consapevolezza che qualunque azione può ergersi a immortalare tale rapporto.
Anche per questo le narrazioni di questi “umili” personaggi, sono ugualmente asfittiche, benché più tradizionali. Assistiamo ai loro destini, li affianchiamo nella speranza di una rivincita, ma li ritroviamo privi di volontà, e ci rendiamo conto, nell’essere accanto a loro, di essere uguali a loro. Nel frattempo vediamo i potenti, i cui legami procedono in modo tutt’altro che pacifico. La dimensione del contrasto è raccontata specificamente seguendo uno dei principali punti nevralgici della politica italiana, il contrasto fra vecchio e nuovo, che, nel mondo della politica, forse è il connubio più attuale, almeno da 150 anni in qua. Ma attenzione, non tutto è pesantezza e dolore, anzi, Esposito entra ed esce dal dolore, perché sia chiara, sempre, l’illusione della gioia da inseguire, della gioia che già si possiede, forse, o non si possiede affatto.
Ma ironie a parte, il disegno mostra come perfettamente naturali e inevitabili bipolarismi, rimpasti, accordi, inciuci, quello che permette alla politica, o meglio agli uomini che la occupano, di muoversi fra buio e luce, di stare contemporaneamente nel buio e nella luce, di trasmettere luce essendo buio e viceversa, perché la vita della politica è composta di sfumature, di gradazioni, di onde indistinte che attraversano la società producendosi magmaticamente, continuamente, in arabeschi di vite, di alleanze, di speranze, di possibilità. Ma qui ciò che illumina lo fa in modo irriverente, la luce sembra essere sempre seconda al buio, lo sguardo deve restare puntato sulle storture del potere, perché è il potere a decidere dove dobbiamo guardare.
Qui Esposito si inventa l’esistenza di Beetlegeuse, una stella che sarebbe esplosa creando una seconda fonte di luce nel nostro cielo, un fatto epocale che viene percepito come ennesima abitudine, dopo breve tempo, un fatto che sarà destinato a concludersi, e che nel frattempo non sembra segnare alcun reale mutamento nei fatti del potere, nelle relazioni politiche e sociali, come a suggerire che il futuro non sarà diverso dal presente, che si potrà forse cambiare la fonte di luce, ma non gli esiti dei suoi effetti.
Così il romanzo può essere catalogato alla voce distopia come, ugualmente, alla voce realismo, o persino storia, etc. La ricorsività, l’impossibilità di un cambiamento reale ne sono l’aspetto centrale, ma quest’assenza non può non esserci e basta, deve essere centrale, gridata, vista, idolatrata. Non si può dare successo, perché la sua fine sarebbe la fine della politica stessa. I burattinati devono scandire il tempo e decidere le parole che ci fanno vivi. Tutto è raccontato seguendo un andamento sincopato, Gli Ausiliari è una sinfonia tecnocratica, emerge un suono regolare e inquieto come se i vicini di casa avessero messo su un disco degli Einstürzende Neubauten (e mai nome fu più calzante), il ritmo costante, le pause brevi e frequenti, l’insistenza.
Tutto è funzionale al racconto del potere, di chi lo detiene e di chi lo subisce, e dei mezzi che collegano le due parti. Ci sono elementi finti, fantastici, futuristici, o comunque legati a un immaginario distopico, un 1984 già ben immaginato da Gilliam, anche se qui ciò che compare come anomalo finisce per rientrare a pieno titolo nella normalità, tanto da far dimenticare di non essere al bar a leggere un giornale alle pagine della politica interna.
Esposito racconta di aver costruito Gli ausiliari volendo riprodurre la storia di Catilina in tempi moderni. Catilina è un personaggio di rottura, perché era un ottimate che era passato ai popolari, quindi aveva sovvertito lo status quo e per giunta le testimonianze che abbiamo appartengono a Cicerone, che di Catilina era stato avversario. Sappiamo la fine che fece.
È forse il destino di tutti quelli che si ritrovano, volenti o per concorso di circostanze, a voler cambiare le regole del gioco? In un certo senso la storia di Gli ausiliari va, o almeno sembra andare, in quella direzione. Ma Esposito, quando ci mostra che la storia cambia, in quell’atmosfera distopica eppure così vicina a noi, è accurato a togliere ogni luce: la fine di Beetlegeuse ne è soltanto l’esempio più evidente.