La zona d’interesse. Dall’altra parte di quell’altra parte

Recensione di Antonio Maria Porretti. In copertina la locandina di “La zona d’interesse” tratta dal web
Un nero che invade lo schermo, con il potenziale attrattivo di una calamita che comincia a risucchiarti dentro.
È l’inizio de La zona di interesse, diretto da Jonathan Glazer, premiato con l’Oscar per il miglior film internazionale e basato sull’omonimo romanzo di Martin Amis.
Cos’era dunque la “Interessengebiet”?
Si trattava di quell’area di circa 40 chilometri quadri innestata fra il Campo di Auschwitz I e Auschwitz II – Birkenau, dove risiedevano le famiglie dei gerarchi nazisti posti al controllo e alla gestione del genocidio di massa degli ebrei.
Un “Locus Amoenus” anestetizzato e preservato da ogni commistione con quella fabbrica di morte. Organizzata con la meticolosità di una Base Industriale di appoggio e di sostegno per imprenditori in cerca di manodopera gratuita per irrobustire le loro produzioni. Nella menzogna di una promessa di libertà in cambio di lavoro.
È qui, dall’altra parte di quei cancelli, muri ed estensioni di filo spinato in cui ogni sonno era sala d’attesa per la morte, che la vita riprendeva a veicolare entro i binari di una “normalità” in estradizione da quell’ inferno. Esule da quelle atrocità come lo furono migliaia di tedeschi e europei impermeabili e passivi, allorché non entusiasti e consenzienti di quel tabula rasa genetico.
E così, ecco progredire le vicende domestiche della famiglia Höss: quella del comandante di Auschwitz, per intenderci. Con andamento di un dormiveglia interiore. Rischiarato da una fotografia volutamente livida, torbida, raggelante.
Come se ognuno dei componenti fosse un inconsapevole vampiro distratto: la signora Höss che si prova con modalità un po’ da pavone gli abiti delle deportate più abbienti, o dedicandosi alle cure del proprio giardino. Il figlio maggiore che si compiace orgoglioso della propria collezione di denti estirpati, purché sani. La figlia grande che si esercita al pianoforte, con sottofondo di boati , sirene e sparatorie. E poi gli appuntamenti quotidiani intorno al desco; le scampagnate in riva al fiume con contorno di nuotare e gare di pesca; i bagni e i pomeriggi trascorsi intorno alla piscina; le visite e gli scambi di cortesia con il vicinato…
Tutto come se scorresse su lastre di ghiaccio. Ogni situazione ad affastellamento di un mosaico dell’orrore. Di una ferocia che si dà solo per percezione sonora; a distanza.
Straordinario – a dir poco – il lavoro svolto Jhonnie Brop, responsabile del suono, e Lukazs Sal, direttore della fotografia. Determinante per accrescere e estremizzare la Gemütlickeit di questo spaesamento (e stordimento) per gli occhi e l’udito dello spettatore.
Film tragicamente grottesco? Sì, se per tale si intende la “banalizzazione” della disumanità umana. Film storico? Anche. Ma di una Storia che trova sempre un modo per replicarsi con millimetrica filologia. Film “necessario”, come si usa dire oggi a proposito di libri e pellicole?
Questo dipende dal livello di assuefazione a crudeltà (eufemismo) in corso; a pregiudizi e avversioni razziali più che mai in gran spolvero; dalla dose di coscienza in possesso di quell’uno, nessuno, centomila, che ognuno di noi potrebbe un giorno essere.