Vitaliano Trevisan: eri tu o non eri tu?
Articolo di Marco Quarin
8 gennaio 2022… Sei morto ieri. Prendo in mano i tuoi libri che ho in casa: Un mondo meraviglioso (Theoria, 1997) e Works (Einaudi, 2016). Nel frontespizio del primo una data: agosto 1997, nient’altro. Emerge un ricordo confuso, tanto da dubitare che sia qualcosa di diverso, forse una visione onirica. Eppure, mi sforzo, cerco di mettere a fuoco quel momento del passato, ma la tua morte rende tutto più irreale, e più mi concentro e più il ricordo, o quel che è, si confonde. Eppure…
Agosto 1997… Toccò a me presentare l’autore in una delle serate di “Al Fresco”, al Forte Marghera, qui a Mestre. Gli altri del Circolo Culturale erano in vacanza, o impegnati altrove. Avevamo preso gli accordi per telefono, allora si usava così. Alle 8 in punto ero al binario ad aspettare il treno proveniente da Vicenza. Non sapevo che faccia avesse, è stato lui ad avvicinarmi, forse perché gli avevo lasciato un segno di riconoscimento, lui di sé aveva taciuto. Dal mio metro e settantadue, mi era sembrato alto, molto alto, era vestito di scuro e aveva in mano un libro, il suo libro, credo. Non ricordo il timbro della sua voce, ricordo gli occhi azzurro ghiaccio, che mi intimorivano. E ricordo che sembrava infastidito dai convenevoli, rispondeva alle mie semplici domande con molti secondi di ritardo, come se avesse avuto bisogno di una pausa di riflessione per ognuna. In auto guadava in silenzio la città e il cielo, le uniche parole le ha riservate a un pronostico: “Anche stasera ci bagneremo”. Appena ho spento il motore davanti al Forte, sotto le prime gocce di pioggia mi ha detto: “Senti, io non sono bravo a parlare, meno ancora a parlare di quello che scrivo. Parla tu, io posso leggere qualche brano, e non farmi domande segaiole sulla letteratura o roba simile”.
Io parlai e lui lesse, alla fine dallo scarso pubblico partì una domanda, una sola: “Lei perché scrive?” Mi aspettavo una risposta sbrigativa, del tipo: “Perché sì”. Oppure: “Vai a saperlo!” Invece si è concentrato con un mezzo sorriso (condiscendente, ma verso chi?) e ha sciorinato una serie di ipotesi, come se lo scrivere non lo riguardasse.
Poi è arrivato lo speaker della radio locale, voleva un’intervista, l’autore si è ritratto quasi spaventato, l’ho dovuto prendere in mano io, il microfono. Lui ha ascoltato senza fiatare, ma ho intuito che qualcosa mi avrebbe detto più tardi. Infatti sulla banchina della stazione deserta, a un minuto appena dall’arrivo dell’ultimo treno per Vicenza, mi ha chiesto: “Tu scrivi?” Lusingato, gli ho risposto: “Ci provo, ma con esiti neppure passabili, mi sembra”. Ha spento sotto il tacco l’ennesima sigaretta e con un piede già sul predellino ha detto: “Insisti. Tu sì che saresti lo scrittore che interpreta il personaggio dello scrittore”.
Non l’ho più rivisto.
Chi era? Vitaliano o un altro? Un ricordo vero o un sogno?
Poi ho letto queste parole: “[…] non presento i miei libri, non l’ho mai fatto. Posso leggere, farmi presentare da qualcuno e rispondere alle sue domande” (1).
Strano, mi dico. Quasi le stesse parole di quell’altro, nell’agosto del 1997. E poi la stessa data sul frontespizio di “Un mondo meraviglioso”, con una calligrafia che non è mai stata la mia.
Se eri tu, Vitaliano, perché non mi hai lasciato anche la firma?
Non importa. Non importa, anche se non eri tu, ti sono debitore di questo sogno.
Chissà, forse aveva ragione Freud: il sogno è il tentativo di appagare un desiderio.
(1)- Conversazione con Nicola De Ciglia, in Gli asini, ottobre 20