Una vita allo specchio

Racconto di Terri Boemi

Nora lasciò scivolare l’accappatoio sul bordo della vasca liberty. Unse le mani di olio di mandorle e massaggiò con cura ogni centimetro della sua pelle. Indossò un maglia leggera, color avorio, lunga fino alle caviglie. A piedi nudi, sul pavimento di quercia consumata, si diresse verso il salotto.

Le tende di mussola bianca, solleticate dalla brezza di un settembre ancora tiepido, parevano dervisci rotanti mentre, rigonfiandosi alla base, sfioravano ritmicamente lo schienale della poltrona color cremisi accompagnando così i rintocchi della pendola a muro.

“Buon compleanno” – cinguettarono festose Sole e Andrea, rispettivamente nipote e assistente, irrompendo nella stanza.
“Come siamo allegre – rispose accendendo una sigaretta – vi assicuro che non c’è niente di divertente nell’invecchiare”.
“Ma smettila di frignare, sono solo 60”.
“Andrea, ti prego. Sono vecchia”.
“Sei noiosa – ribatté l’amica – dai, vieni, ho preparato una colazione degna di una sovrana”.
“E che ne sai tu di cosa mangiano le altezze reali?” – incalzò Sole.
“Mi informo”.

Le donne sedettero attorno al tavolo rotondo, in noce americana, con un piede centrale intarsiato. Sulla tovaglia di lino un bouquet di fiori di campo. E tra caffè fumanti, spremute di agrumi di Sicilia e dolci appena sfornati, ebbe inizio una settimana che già si annunciava tiepida e ricca di speranza. Sulla consolle di cristallo, portaritratti di grandezze differenti, custodivano scatti di vita che, come indumenti sbiaditi da un lavaggio sbagliato, popolavano, confusamente, i ricordi di Nora.

“Sole?”.
“Mmm, dimmi” – rispose masticando.
“Chi è la signora elegante, con il cappello enorme e la collana di perle, nella foto in bianco e nero?”.
“Te l’ho già detto. È la nonna. La madre di mia madre e quindi anche la tua”.
“Hai ragione. Probabilmente, me lo avrai ripetuto tante volte. E chissà quante altre te lo chiederò ancora”.

Andrea lanciò uno sguardo di rimprovero alla ragazza che non poté nascondere il suo imbarazzo.

“Perdonami. Tu potrai chiederlo fino allo sfinimento. Io sarò qui con te, a vegliare suoi tuoi ricordi. Sui nostri ricordi. Ora vado in ospedale”.
“Ho una geriatra in casa. Cos’altro potrei volere di più?” – disse Nora abbracciando teneramente sua nipote.
“Un uomo?” – rispose restituendo il sorriso e ricambiando l’abbraccio.
“Ma piantala!” – Nora rise di gusto accomodandosi sulla poltrona davanti lo specchio, sotto lo sguardo malizioso di Andrea. Lo specchio, racchiuso in una cornice barocca si ergeva, imponente, in un angolo della stanza quasi interamente occupata dal pianoforte a coda. Bianco.
“Ma ti pare che a trent’anni, invece di viaggiare per il mondo, una si mette a cambiare pannoloni ad anziani incontinenti e rimbambiti!” – fece Andrea scuotendo la testa.
“Intanto, geriatra non significa datato. Rammento che la scuola di specializzazione l’ho conclusa 24 mesi fa, quando di anni ne avevo 28 – ribatté Sole – e, rammento pure, che non sono una badante. Con tutto il rispetto per le badanti. Ovviamente”.
“Mettila come ti pare – sentenziò Andrea – sta di fatto che il tuo tempo migliore lo passi accanto a trapassandi. Il che, per la proprietà transitiva, ti fa anziana”.
“Andrea ma che dici? Mia nipote è una esplosione di giovinezza!” – si inserì Nora strizzando l’occhio all’amica.

L’aveva amata fin da subito quella ragazza così speciale. Ancor di più da quando, all’età di 15 anni, era rimasta da sola. Non aveva conosciuto suo padre e la madre, pediatra, si era trasferita definitamente in Africa assecondando un desiderio represso, immolato sull’altare di una vita che altri avevano disegnato per lei.

“Voi non capite quanto quel reparto mi stia arricchendo”.
“Senti, senti, non mi dire che ti hanno inserita nel testamento?” – ironizzò Andrea.

Sole fece una smorfia.

“Le loro storie – riprese dopo qualche istante – in cui verità e immaginazione si fondono alla perfezione, sono un patrimonio di inestimabile valore. In molti ormai non si riconoscono più. Si chiedono a chi appartenga l’immagine riflessa nello specchio. E tuttavia ci sono momenti, brevi sprazzi di luce, in cui, osservandosi, attraverso un tratto, una cicatrice, un neo, una smorfia qualcosa, anche piccola, riemerge. È come se riuscissero ad andare oltre l’apparente. E scavano dentro”.

“La favola racconta di una tizia che parlava con lo specchio. La tizia ha fatto una brutta fine” – ridacchiò Andrea.
“Scema – l’apostrofò scherzosamente Sole – a stasera belle donne” – gridò chiudendosi alle spalle il portone di casa.
“Aspet… si, ciao!” – fece Andrea alzando gli occhi verso il soffitto. Troppo tardi: Sole era già via.
“Nora, esco anche io. Vado a prendere qualcosa per il pranzo. A dopo”.

Si salutarono con un cenno della mano ed un bacio inviato a distanza. Nora rimase seduta davanti lo specchio. Quel piano inclinato, liscio e lucente, era lì a ricordarle l’incessante, inesorabile passaggio del tempo che, intanto, mano a mano, segnava percorsi sottili sulla pelle delicata di un volto bellissimo. Scrutò con attenzione il suo riflesso mentre ogni cosa attorno a lei iniziava a sfumare. Tutto pareva sfocato e, in un repentino mutare di scena, un vento leggero e tiepido la condusse oltre lo stargate.

Su una spiaggia arsa dal sole gli ombrelloni, accostati gli uni agli altri, avevano occupato ciò che restava del tratto sabbioso che la furia delle mareggiate invernali non era risuscita ad ingoiare. Una bimba seduta sulla sdraio, gustava un cono gelato. Una vecchia, esile e ossuta, le si stava avvicinando. Indossava un abito leggero a fiori, senza maniche, che le copriva le gambe fino a metà polpaccio. Si rivolgeva alla bambina con ostilità e lei, impaurita, urinò sulla sdraio, tra le risa sguaiate dei suoi coetanei.

Nora sentì un liquido caldo scendere tra le cosce. Improvvisamente, come spinta da una forza esterna, girò su se stessa. La sliding door l’aveva catapultata al centro di in una piazza piena di suoni, colori e gente festosa. Notò tra tutti, una donna. Era alta, più della media. Sorrideva scoprendo denti bianchi e perfetti. Anche Nora sorrideva. Le pareva si muovessero all’unisono. Una piccola mano scivolò dentro la sua. Guardò verso il basso e riconobbe la bambina della spiaggia. La piccola le stava indicando un tracciato luminoso, alberato.

Nora lo seguì. In fondo vide un edificio a sei piani. Grandi vetrate arredavano le quattro facciate. Entrò. In una sala immensa; uomini e donne in camice bianco, si agitavano in un incessante andirivieni. Tutto la rendeva ansiosa. Prese a camminare verso un punto facendosi largo tra quella folla asettica. Sagome femminili dal ventre rigonfio formavano un cerchio attorno ad un letto su cui stava distesa la donna incontrata in piazza. Il sipario fu alzato, il primo atto ebbe inizio. Lei aprì le gambe ed espose il suo centro vitale. La vista le si annebbiò. I sensi, pietosi, tacevano mentre le strappavano una vita indifesa.

Nora si contorse per il dolore provocato da una fitta lancinante che pareva tagliarle il ventre. Cadde in ginocchio. Si ritrovò nella sua stanza.

Madida di sudore e con il respiro affannoso, corse verso la finestra che dava sul cortile interno. L’aprì. E ancora un refolo di vento leggero l’avvolse amorevole e le sfiorò le guance. Fece un respiro profondo. Come in un piano sequenza, orientò lo sguardo da sinistra verso destra, poggiandosi sulla distesa di tetti che si alternavano in un gioco di linee ora inclinate ora orizzontali. Molto più in là uno scorcio di mare. Il giorno stava morendo. Dalla casa di fronte giungevano le note di Gershwin, sottofondo perfetto per quel tramonto d’autore.

Nora si voltò. Guardò lo specchio.

Poi andò verso camera da letto. Si fermò nel piccolo corridoio, passaggio obbligato per arrivare alla zona riservata della casa. Nella parete che correva sulla destra, dopo la porta d’ingresso, in un incavo, era stato ricavato un armadio a muro. Da qui, Nora estrasse un lenzuolo ricamato a mano, color tortora. Tornò in salotto e con il lenzuolo coprì lo specchio.

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