Vieni Signore. Un Cantico del non ritorno

Di Martino Ciano

Nient’altro che la notte per raccontare ciò che indebitamente si attribuisce alla lucidità delle ore soleggiate. Così, posto tra l’ombra e lo spicchio di stanza illuminato da una abat-jour che richiama un ramo d’acacia, sfido la solitudine nella quale mi sono abbandonato, perché solo in questo esilio mi posso ritrovare.

Mi riconosco pellegrino ma rivolgo a me la preghiera di non essere troppo crudele con la mia anima ormai preda del suo oblio, ovvero dell’Es che non mira lo sguardo a Est, a levante, ma a ponente, laddove tutto è concesso purché non si ceda al canto della pazzia.

Eppure, folle è la lingua che io voglio parlare, deleterie le parole che mi sento di pronunciare, giacché di morte, e di suicidio, e di annullamento, e di dolore, e di stupro, e di violenza, e di sangue, e di accidia, e di maldicenza, io voglio discutere, giacché altro la notte non mi ispira, perché, in fondo, la notte è un ponte tra ciò che si imita, ossia il quieto vivere, e ciò che si cela, ovvero la malvagità; e più che mai, quando l’oscurità avvolge il mondo, noi sentiamo che possiamo fare a meno della menzogna, che possiamo svestirci, che non abbiamo più bisogno di uno specchio, che possiamo nasconderci sotto le coperte se abbiamo timore dei nostri pensieri, che possiamo sognare a occhi aperti proiettando tutto sul soffitto bianco, che possiamo scrivere e lasciare che il tratto d’inchiostro sia libero, dolce, rilassato come un omicidio premeditato in ogni dettaglio, che possiamo dire ciò che vogliamo o, meglio ancora, farneticare senza temere di andare in manicomio; che possiamo masturbarci in solitudine, che ogni cosa faremo o penseremo sarà spazzato via dal sonno.

E quando ci sveglieremo, a causa di un incubo o per gli strilli della sveglia, noi avremo dimenticato e saremo pronti per iniziare, di nuovo, ad amare nella pienezza della luce solare, e a mentire, e a tradire, e a voler stare in pace tra gli altri, e a essere indifferenti, e a meditare sulla nostra fine.

Beate siano le ore diurne, dunque, che frenano il nostro sentire!

Ma anche questa è vanità – grida adesso il mentore che sta nella mia mente – perché nessuno può bussare di notte ed entrar di giorno nelle stanze della percezione.

È questo, allora, il momento di dire?

Ad alcuni uomini, ossia ai miei demoni, ho spiegato che per me la filosofia è annunciare proposizioni intuite che in seguito qualcuno interpreterà e chiarirà, e per quanto tale annuncio sia apparso loro strambo, io l’ho trovato sublime, perché sublimare vuol dire falsificare i propri istinti primari ma non la verità che portano in groppa. Infatti, da subito ho detto loro che da tempo mi sono convinto che solo un colpo di pistola in testa può salvare l’uomo dagli equivoci della morale, dell’etica, dell’estetica, della Buona Novella, dell’educazione, del pudore, dell’ottimismo, del progresso, della sessualità pro-vita.

Per quanto nelle erranti filosofie che hanno calmato o eccitato l’umanità ci sia sempre un fine progressista o evolutivo del sé e della coscienza, tutto è rimasto un solipsismo mal interpretato. Ogni tesi ha necessitato di altrettante tesi che hanno contraddetto e riedificato ciò che originariamente era stato pronunciato. Così, nulla è rimasto se non il nome; io, almeno questa notte, non sarò solo un nome. E alzandomi dal letto, e guardando la luna, e solo contemplando la bava di luce che cola sul davanzale, trovo la mia ragione: un giorno è una vita, ossia tutto è ripetizione, e ciò che si ripete si falsifica, e ciò che si falsifica è verità conclamata, quindi opinione gloriosa, pertanto doxa.

Vieni Signore, è tempo di morire e di risorgere.
Vieni Signore, ché inutili sono state le tue parole.
Vieni Signore, ché sei arrabbiato con te stesso per aver fatto l’Uomo che da uovo di donna nasce e che poi altre uova andrà a fecondare.
Vieni Signore, che si muore nella gioia, nella speranza e nella gloria dell’eterna salvezza. Siamo innocenti anche quando stringiamo tra le mani un coltello dalla lama insanguinata.
Vieni Signore, mostraci il nulla… Il nulla, la tua gabbia, il tuo cannocchiale, la tua arma di distruzione di massa.
Vieni Signore, non abbiamo bisogno di te. Anche coloro che ti pregano non hanno bisogno di te… li vedi che poi fuggono, i tuoi figli, davanti al dolore che infliggi, alle prove che imponi, alla pietà che mascheri di ipocrisia.
Vieni Signore, che tu dicesti Abbiamo tutti i segni, ma di quali segni parli se ancora analfabeti ci aggiriamo in un mondo di specchi, di ombre, di allucinazioni?
Vieni Signore, tuo Figlio si è spento, ancora muore.

Vieni Signore, anche se è troppo tardi!

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