Verso il mare

Verso il mare

Racconto di Giuseppe Gervasi

Giunse la notte, tutto era pronto. L’intimo diario venne riposto nello zaino grigio insieme al vecchio vaso di ceramica e ai fiammiferi rubati di nascosto in cucina. I pantaloni comodi e la felpa appoggiati su una poltrona marrone e le scarpe da tennis di colore rosso adagiati per terra. Erano tornate nuove dopo che la nera polvere fu tolta con un panno umido. La Speranza uscì dalla sua camera, scese in silenzio le scale storte ed entrò nella stanza dove dormiva il Sogno. Lo svegliò sussurrandogli all’orecchio:

“Domani vorrei andare al mare, mi accompagni?”
“Con te verrei dappertutto.”

Le labbra della Speranza sfiorarono quelle del Sogno e in un tenero e lungo abbraccio conobbero l’amore dolce, vero. Lunghi sospiri nella notte, che nel chiuso di una stanza si nascondevano nei muri, ignari complici di un gesto d’amore. La luna piena luminosissima, rese nudo per il cielo il segreto di quell’incontro tra i giovani corpi. La Speranza finalmente sognò ad occhi aperti e conobbe la felicità. Uscì da quella stanza che era ancora buio, non voleva che altri sapessero. Entrò in bagno e prima di far scomparire il profumo dell’amore si guardò allo specchio.

Un sorriso lungo tutto il suo corpo cancellò per sempre i segni di mani sporche e violente, sostituite dalle impronte di mani dolci e innocenti.

Il rumore di un lento asciugacapelli svegliò il Sogno che allungando il braccio abbracciò il nulla. Strinse forte il cuscino, che nella notte aveva conosciuto i capelli della Speranza e il suo profumo di rose. Chiuse gli occhi ripensando ai sospiri, ai baci e al viso disteso di una giovane amante.

Si alzò, una doccia calda e veloce, la barba e il profumo sul suo corpo che si perse in quella stanza di paese. Indossò la tuta da studio e un paio di scarpe comode: bisognava battere la campagna.

Il Sogno bussò alla porta della Speranza:

“Andiamo?”
“Arrivo, prendo lo zaino.”

Si guardarono come se si fossero visti per la prima volta, chiusero la porta e via verso il mare, che tanto avevano temuto, ma che adesso rappresentava un ultimo traguardo. Il perché di quell’affascinante e azzurra attrazione li spingeva verso il basso, mentre gli occhi sfidavano le distanze. Il cielo straordinariamente turchino si tuffava nel mare di Calabria. Il sole accecava lo sguardo, nascosto da occhiali scuri che solo l’estate sino a quel momento avevano conosciuto. Tutto era lento e come in un fermo immagine di un vecchio videoregistratore che ogni tanto s’inceppava, i passi s’inchiodavano, senza un perché. Una triste Vespa 50 attendeva il suo padrone, una bottega chiusa, un palazzo nobiliare dietro l’angolo si apriva a nuovi mondi. Il cammino dei due giovani accarezzava il mosaico di pietre, che mani sapienti avevano incastonato tra canti popolari e bottiglie di birra morte e sepolte.

Lo sguardo si posava e si perdeva su una scalinata di pietra, abbellita da ciuffi d’erba che arredavano una chiusura di legno tremante, quasi a nascondere il nulla. Un numero rimaneva di spalle, appoggiato come la schiena di un anziano ad una vecchia poltrona sgualcita.

Più in là una motoape verde si nascondeva in un vicolo, dove i colori del nero fumo, giallo ocra e panna arrossivano innanzi ad un cartello con la scritta Vendesi, adagiato ad un balcone in ferro battuto.

Un giorno sarebbe crollato insieme alla memoria oramai smarrita.

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