Vera. Ultima parte di un racconto poliziesco
Racconto di Salvatore Conaci
“Il biglietto era sulla porta. Lui era introvabile da ieri sera, invece, e sono venuto a cercarlo. Ho avvisato la polizia, ma non so se voglio che vedano questo biglietto. Che cazzo è ‘sto Samhain? Se è qualche stramberia sessuale, ‘sto biglietto lo brucio. Quest’uomo era il mio miglior dipendente, e non merita una calunnia tanto vigliacca! Volevo consultarmi con te prima che arrivassero le volanti. Ti avrò chiamato non so quante volte, nell’ultima mezz’ora!”
Guardo lo smartphone: trenta chiamate perse, ma ora che siamo nella boscaglia neanche una fottutissima tacca di linea. Non so cosa rispondere. Mi sento invadere dall’ansia. Due persone già morte, una ragazza quasi sfigurata. Vera mi trascina dolcemente in disparte: “Avrei dovuto ucciderlo io. Era l’ordine di ieri sera. Per questo ti ho chiesto di portarmi subito via con te, quando eravamo al chiosco”, mi sussurra all’orecchio. Nei suoi occhi leggo la vergogna e l’orrore. “Non ti preoccupare, piccola, ci penso io. Non sei più sola”, le rispondo, cercando di rimanere credibile. La verità è che devo davvero aspettarmi qualunque cosa da quegl’invasati. Soprattutto, devo sperare che non siano abbastanza influenti da poter rientrare dall’area Partenze dell’aeroporto. Stanotte mi avranno risparmiato grazie a Vera, ma ora li ho derubati della loro promettente adepta, e li ho minacciati e rinchiusi in un sudicio bagno pubblico.
Torniamo dal proprietario, ma prima ancora che possa elaborare qualcosa, l’incubo si materializza. Dal vetro opaco della porta vedo una sagoma avvicinarsi, fermarsi alla soglia ed eseguire un gesto simile al segno della croce. Poi le sagome diventano tante. Sono riusciti a tornare indietro dai gates, come morti dall’oltretomba. Li ho sottovalutati: sono più influenti di quanto pensassi. Ora siamo un errore nel loro sistema, e vogliono risolverci. Li vede anche Vera, che subito tappa la bocca al proprietario dell’albergo, indicandogli il problema. Siamo in trappola, dannazione.
I tizi iniziano il loro sinistro vociare. Pregano prima di venire a massacrarci. Riderei, se non fosse imminente uno scontro. Nessuna finestra, nessuna via di fuga. Siamo topi in balìa dei cazzo di gatti. Il proprietario mi guarda. È smarrito. Gli strizzo l’occhio, estraendo la pistola da sotto l’ascella. Vera si china lenta come un felino. Sotto il tailleur ha un pugnale da caviglia. Lo impugna e si mette in guardia con una naturalezza che mi fa capire solo una cosa: so davvero troppo poco sulla stramaledetta Legio Dei.
Dal nulla, una voce scombussola gli stronzi lì fuori: “Cosa ci fate qui? Questa è la cabina dell’addetto alla sicurezza…”, dice un uomo, avvicinandosi alla porta. Un adepto, però, gli dà addosso, sicuramente afferrandolo alle spalle, e fa impattare la sua testa contro la parete esterna. Al primo colpo il poveretto urla, al secondo rantola, dal terzo al sesto silenzio agghiacciante. Solo ossa contro l’intonaco. Il vetro opaco m’impedisce di capire cosa stiano continuando a fargli. So solo che alla fine un grasso fiotto raggiunge la porta, come un violento gavettone di sangue. Poi, il corpo cade rovinosamente, facendoci tremare il pavimento di legno sotto i piedi.
Guardo il proprietario dell’albergo: si è pisciato addosso. Ha capito che i prossimi siamo noi. Non so che armi abbiano là fuori, né in quanti siano. Ho la responsabilità di due vite, oltre alla mia. Posso solo restare al riparo finché c’è la possibilità. Ogni altra mossa da eroe sarebbe un inutile rischio.
La porta ha uno scossone, e la maniglia inizia a muoversi. Punto la pistola. Smetto di respirare, aiuta la mira. Ho i caricatori pieni, ma non dovrò sbagliare un colpo. Vietato sbagliare, cazzo. Anche se non mi era mai capitato un casino simile. Anche se, per la prima volta, ho paura sul serio. Paura per me. Paura per Vera, che mi sta parlando con gli occhi, e cosa mi dice lo so solo io. Paura per una vita nuova, dopo un’esistenza di stenti del cuore.
La porta si scosta leggermente, e sono pronto. Siamo tutti pronti. Ma nuove voci arrivano da fuori: “Polizia, giù quei coltelli!”, fa un uomo. Poi una donna, a pieni polmoni: “Pistola! Pistola!”
Vera si ripara al pavimento in un istante. Io la seguo, trascinando con me il capo della baracca. I poliziotti scatenano un inferno di proiettili, e dopo qualche secondo di fracasso cala un silenzio che è sollievo e tensione. Chi l’avrà spuntata?
Mi guardo intorno. Noi tre stiamo bene. Punto ancora una volta la pistola, ma metto subito giù, quando un agente fa capolino dall’uscio, e ci vede. Mi qualifico prima che crivelli anche me.
“Grazie a Dio!”, esclama. Poi ci aiuta ad alzarci.
Grazie a Dio!