Vera. Terza parte di un racconto poliziesco
Racconto di Salvatore Conaci
La guardo senza farmi troppi scrupoli, e lei se ne accorge. Capelli mossi, alla spalla; bocca carnosa e occhi intelligenti. Mi sorride, poi m’ignora per ordinare “la stessa cosa che ha preso il signore, grazie!”. Accento milanese. Anche la sua grappa arriva e scompare in un sorso. Diventa paonazza. Il suo profilo si alza contratto al cielo, poi finisce occhi al bancone. “Io non bevo, ma da lontano sembrava che questa roba le facesse tenere a bada qualcosa dentro. Mi chiamo Vera”, mi dice. All’angolo destro della bocca ha un neo che m’ammazza. Le rende il viso malizioso, erotico. Non riesco a guardare altro.
“Dammi del tu o vattene a fanculo”, le rispondo, prima di dirle il mio nome. S’incupisce per un attimo. Raddrizza la schiena come se le avessero punto il culo con uno spillo. Poi rinviene, e mi sorride, più scaltra di prima.
“E tu hai qualcosa da tenere a bada, Vera?”, le chiedo.
“I signori gradiscono un biglietto per la lotteria di Halloween?”, ci chiede un tizio sbucato dal nulla.
Sto per comprarlo davvero, lo stupido biglietto che rischia di rovinarmi il momento. Lei, però, mi precede. “Portami via da qui!”, m’implora, prendendomi la mano. Ricambio la stretta, e per un attimo, occhi negli occhi, giochiamo a chi osa più millimetri coi polpastrelli. Da quanto tempo non toccavo una donna? Mi vergogno anche solo a pensarlo. La nostra fuga finisce prima nella pineta selvaggia dell’albergo, poi nella mia camera. Lo smartphone dice sono le ventidue quando sto per chiudere gli occhi dopo la scopata più sporca degli ultimi anni.
Durante la notte ho il sonno disturbato. Non ho pace tra le coperte, intrappolato nell’ultima sfumatura di sonno prima della veglia. Dormo, ma non è appagante, anzi è un incubo. Vorrei solo svegliarmi, riemergere da questa fanghiglia asfissiante in cui sono piombato senza rendermene conto. Mi sembra di sentire voci isteriche. Una litania. È come se diverse persone pregassero intorno a me, a bassa voce, con nervosa agitazione. Più cerco di capire, più un sonno scarso ma invincibile mi confonde. Ma io sono un fottutissimo lottatore, e lotto con tutto me stesso. E alla fine mi sveglio in piena notte, terrorizzato. Nell’aria si spegne lentamente l’eco di un grido, come se qualcuno fosse uscito urlando dalla camera mentre io, a fatica, tornavo cosciente. Sono stordito. Il silenzio è assoluto, e il ricordo di quelle voci è così reale da lasciarmi un senso di angoscia inedito.
“Che incubo, dolcezza. Ho sognato… non so neanch’io cos’ho sognato, porca troia! Ma che colpa ne hai tu? Dormi pure tranquilla, ne parliamo domani”, dico nell’oscurità.