Libro delle bestemmie: “Oscurando dio, la luce”

Libro delle bestemmie: “Oscurando dio, la luce”

Recensione di Luciana De Palma. In copertina: “Libro delle bestemmie” di Nicola Vacca, Marco Saya edizioni, 2023

Leggere il Libro delle bestemmie (Marco Saya ed.) di Nicola Vacca significa sentire scricchiolare il muro di contenimento delle saghe mitologiche dentro cui per secoli gli esseri umani hanno cercato le risposte.

E davvero scricchiolano e poi cadono, ad una ad una, le barricate che erano servite per proteggersi dai dardi della coscienza che, nonostante i nostri tentativi di ignorarla, resiste con ostinazione e non smette di richiamarci alla responsabilità.

I versi qui raccolti sono duri, aspri, diretti; non c’è alcuna concessione agli indugi, non ci sono margini di incertezze.

E non si tratta dell’aspirazione del poeta Nicola Vacca a indossare i panni di una moderna Cassandra: i vaticini di quest’ultima erano previsioni impossibili da comprendere e condividere poiché non c’erano prove che ne anticipassero la loro attuazione.

Qui, al contrario, i segnali di una catastrofe spirituale sono abbondantemente disseminati lungo le strade percorse con spregiudicata superficialità dai contemporanei.

Mentre si sgretola il muro che celava le superstizioni e le favole a buon mercato, con i pezzi delle macerie si va ricomponendo un mosaico complesso che mostra scenari di guerra; le tessere sono le menzogne, le ipocrisie, le affettazioni morali che stanno soffocando una spiritualità libera, sincera e onesta.

Leggiamo nella poesia Un equivoco: “Dio sei un impostore/un ciarlatano che non gioca a dadi con l’universo/prendi per il culo gli uomini/che ti chiamano dio/perché hanno paura di tutto/di vivere e soprattutto di morire.//Tu esisti perché sei stato inventato dal panico/sei un equivoco che va sempre di moda”.

Dio è la prova di una deflagrazione multipla: le illusioni, come enormi mongolfiere su cui gli uomini per secoli hanno sorvolato sulle pestilenze causate dalle loro stesse finzioni, sono state punte dalle parole della poesia che non ammette edulcorazioni né promesse di paradisi futuri.

Non esistono spiragli di salvezza senza una lucida presa d’atto dello sfacelo che si allarga come un cerchio sull’acqua.

In Eutanasia di dio leggiamo: “[…] Nel dilemma atroce/del silenzio colpevole/si sopprima la sua voce/che non ha mai parlato”.

Se il silenzio è colpevole di aver taciuto anche una parte della verità, allora sia la parola vera, autentica, forte e disincantata a promuovere una partecipazione piena e consapevole alla riformulazione della ricerca di un’altra verità.

Non seguire ciecamente ciò che è stato scritto perché fosse preso per oro colato, ma tentare di raccontare la lotta lacerante contro le convenzioni e le adulazioni della vanità sia il nostro proposito.

In Anche dio è disoccupato leggiamo: “Sulla carta la parola di dio/è misericordia e ascolto/poi quando si chiude il libro dei sogni/la crudeltà si annida nei cuori”.

Lo scarto tra ascolto della parola e messa in pratica della stessa è grandissimo: forse quella parola ha perso il suo peso? O forse non è mai stata davvero in grado di penetrare nell’oscurità dei sepolcri imbiancati, sventrarli per poi favorire l’emersione da quelle rovine di un nuovo raggio luminoso?

Pur di non affrontare il misfatto in cui ci siamo cullati per secoli, preferiamo sottrarci all’inquisizione della coscienza che invece darebbe battaglia a tutte le deformazioni a cui ha dovuto sottoporsi.

Le chiuse di queste poesie hanno un impeto folgorante che non lascia scampo. È necessario, anzi doveroso, non scivolare verso l’abisso come foglie inconsapevolmente già morte perché accettare di esserlo significa anticipare la morte dell’umanità, fisica e spirituale.

Le parole di Nicola Vacca sono picconate contro la roccia dell’abitudine a farsi trasportare dalle verità dogmatiche che nulla hanno a che fare con le verità sofferte, cercate, infrante e ricucite a prezzo di grandi solitudini.

Si fa fatica a scardinare un dio e le comode sicurezze che comporta l’accettazione passiva di ogni cosa provenga dall’idea che di lui ci siamo fatti, eppure non c’è altra via che quella di rimboccarsi le maniche e togliere una pietra dopo l’altra da quell’altissima montagna di menzogne a cui abbiamo finito per assuefarci.

Questi versi non delegano alla speranza la possibilità di salvezza dell’umanità, ma si assumono l’onere di dire, anzi di imprimere nella mente a quale dolore si dovrebbe ricorrere per non annegare nelle placide acque dei perbenismi morali.

In Padiglione zero leggiamo: “Serve la scrittura di parole apocrife/per raccontare le rovine/che ha lasciato il crepuscolo degli idoli./Nemmeno un’illusione ci salverà/mentre si compie il tentativo/di un estremo atto di rivolta/contro il vuoto che inghiotte tutto”.

In questa raccolta il poeta Nicola Vacca non schiera un esercito contro coloro che credono, non ha qui alcun intento bellicoso né provocatorio; non ci sono parti da difendere o ragioni da imporre.

Piuttosto è un appello all’umanità, è ognuno di noi ad essere chiamato al dovere della cognizione di ciò che accade o che potrebbe ancora accadere.

Il focus di queste poesie non è neppure dio in fondo, ma la decadente licenziosità di quei pensieri rassicuranti, di quelle certezze incoraggianti, di quelle intenzioni sedative che producono un’orgia di ferocia, crudeltà e ipocrisia.

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