Univeros. Paolo Vismara e la “psichedelia indotta”
Recensione di Giuseppina Sciortino
Cos’è Univeros (Paolo Vismara, Manni)?
Parafrasando il testo stesso una “personale… passione trainante per la parola” oppure “piacevole e indotta psichedelia” alla scoperta delle “arti infinitorie”.
Come nel regno di Fantàsia aggredito dal Nulla e come sulla Terra minacciata dagli umani con la loro sete di potere foriera di guerre e ingiustizie, così nel mondo costruito da Paolo Vismara incombe il regime dell’Illusione, il “terrore frammentista” a cui si deve la distruzione del mistero, della complessità, dell’immaginazione per la cui mancanza si potrebbe morire e la cui presenza è invece motivo di vita, come già sintetizzato da Céline: “Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo”.
Si resiste in ogni modo, si preserva l’Univeros, l’amorevole desiderio primigenio, frammentisti contro infinitori, divisione paradigmatica che potrebbe definire ogni tipo di contrapposizione, Guelfi/Ghibellini bianchi/rossi democratici/conservatori. Nell’Agorà un sapiens può imbattersi in Latimer o homental, gustare panini ai granchi su barche che offrono alle gocce (non sottraggono), incontrare spiriti itineranti o personaggi dai nomi strani: Darkie, Arimatea, il presidente Diastema, la sacerdotessa Ellimes, re Calumne, la dottoressa Blahnik, il professore Vis Amai (probabile alter ego dell’autore) impegnato a recuperare un capitale culturale distrutto dalle ostilità tra fazioni opposte. Ma attenzione a non essere travolti da moti ond’osi!
Ci vuole coraggio e un pizzico di cautela nell’addentrarsi in un universo fatto di varchi, più che altro semantici, scollamenti tra le parti, dialoghi surreali e grotteschi, divertimenti che fanno pensare a Carroll o ancora a Queneau, al suo I fiori blu, in particolare e, in genere, alle sperimentazioni dell’OuLiPo francese. Un’invenzione continua e sfrenata in cui perdersi senza badare troppo alle trame, rimanendo ancorati a “frazioni di dubbio”. Romanzo? Forse, oppure poema onirico, allegorico, fantasmagorico. Non per tutti, il preponderante “traboccar simbolico” potrebbe provocare escrescenze frizzantine alla lingua o, al contrario, dipendenza da “sontir”.