Undici metri per un Santos
Racconto di Gennaro Lento
Con il viso affondato nel terreno, Bruno cercava di riacquistare le forze dopo lo scontro che lo aveva costretto a terra. L’odore forte dell’erba gli penetrava nelle narici in maniera violenta, tanto da costringerlo a strofinarsi più volte il naso. No, pensò, proprio adesso no.
Ma ormai l’orologio era partito a marcia indietro e a velocità folle. E si rivide tanti anni prima, la faccia ancora nell’erba, questa volta più rada e sbilenca. Più colorata, almeno così gli sembrava nel ricordo. Dolori dappertutto ma nella pancia una gioia ottusa e prepotente.
Non è il momento, si disse. E il paragone non era neanche tanto giustificato, pensò, di fronte a questa bell’erbetta rasata al millimetro e, come dire, pettinata. Quella era alta e ispida, irregolare, selvaggia di certo. Come loro, tutti brutti e storti, con i capelli sparati che nessuna pomata serviva a tenere giù. E croste, lividi, sangue rappreso, in un arcobaleno volgare e pulsante come solo quelli della memoria sanno essere. Tanti Cristi bambini in pantaloncini.
Adesso mi rialzo, pensò.
E lo fece, subito circondato da facce entusiaste e paonazze.
Come stai? Senti male?
Niente niente, solo un piccolo dolorino, appena sotto il ginocchio.
Niente davvero, se paragonato a quella gamba spezzata tanti anni prima, sempre in mezzo allo stesso campo di erba storta. Quell’angolo sbilenco della gamba contro il cielo, quasi da ridere se non fosse stato per il dolore.
Niente, ce la faccio, ci penso io.
Come sempre, come allora, ci pensava lui. Il capo, il capitano.
E mentre per l’ennesima volta si rimetteva di fronte al destino, immancabilmente gli vennero in mente quelle parole, udite tante volte alla radio e pronunciate dal cronista con la solennità di un vescovo alla messa di Pasqua.
Nel silenzio più assoluto.
La palla è sul dischetto,
il capitano prende la rincorsa,
parte il tiro:
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