Una mano

Una mano

Un racconto di Alessia Antonucci. Buona lettura

Davanti a tutti, alla schiera di uomini e donne armati, c’è quella mano. Uno scatto per dire che si deve fermare quell’odio che porta alla cancellazione dell’esistenza. Quel rancore che scava e corrode ogni vena dell’anima. Quella superficialità che mischia ogni cosa, come se non ci fosse nessun senso in questo marasma.

Una mano davanti: cinque dita che si aprono, mostrando le line segnate sul palmo della mano. Qualcuno, in un periodo diverso, ne avrebbe letto a suo modo il significato.

L’amore, la fortuna, il destino, i figli. La vita. Sì, la linea della vita. Ma ora che non suonano le campane da tempo, che intorno è fumo, che ovunque sembra riecheggiare un vento di tempesta, pensare alla linea della vita sembra un paradosso.

Eppure, quella mano che si mette davanti a tutto e a tutti cerca d’indurre al “cessate il fuoco”. Basta con l’odio e il rancore, la sofferenza e la violenza. Anche quella delle parole.

La schiera di uomini e donne armati se ne sta lì: la fronte corrucciata. Gli occhi vitrei. Le mani strette a pugno. Le gambe e le braccia granitiche. I pensieri sovrastano le espressioni che vogliono essere glaciali, dimostrare che nessuno può comandare loro, prendere il loro posto. Nessuno può estrometterli, proprio ora che hanno quasi tutti in pugno. Ma i pensieri si assemblano in nuvole, alcune dai contorni così forti che sembrano contenere ogni sillaba e ogni vocale, intrecciate.

Sono stanchi anche loro? Questi uomini e donne armati hanno lavorato sodo per portare tutto l’odio tra le persone. La cenere è lì fumante. I ghigni, però, non fanno più eco. La strage delle emozioni è quasi superata: tutto ciò che portava speranza, ottimismo, altruismo, benevolenza e amore si è cercato di annientarlo. Hanno lavorato duramente: repressioni di abbracci, scudi sui baci, spade di parole e di minacce. Sguardi con comandi incorporati.

Volevano incutere terrore e ci sono riusciti. Quei capelli sudici, quell’olezzo che accompagna ogni loro passo sono il simbolo di una conquista nel tempo. Un tempo non più scandito dalle ore ma dai nomi aggiunti nella lista. Un elenco puntato con le vittime sacrificali di queste giornate senza fine, di questa apocalisse che ha scavato ogni persona. Quell’olezzo è il simbolo di un traguardo raggiunto, di un altro uomo, di un’altra donna fatti prigionieri.

Prigionieri in una gabbia invisibile agli altri. Questo li fa impazzire ancor di più. Non hanno catene attorno; non sono reclusi dietro sbarre materiali. Ma il loro libero pensare e le loro libere emozioni sono cristallizzati. Ghiacciati. È come se non ricordassero nemmeno più cos’è la speranza. Come potrebbero del resto? Le case si stanno accartocciando su se stesse. I balconi sono invasi da piante grasse e da erbacce che si allungano sui muri e raggiungono i piani di edifici storici. Crepe ne disegnano il passaggio di vento e grandine.

Le bandiere e gli stendardi sono consumati ai bordi, scoloriti al centro dal sole e mangiucchiati un po’ ovunque dalle tempeste emotive che hanno buttato pioggia di veleno su ogni cosa. Le antenne arrugginite e ammassi di elettrodomestici per le strade, con gatti randagi che hanno preso il sopravvento e gestiscono il traffico dei passi, creano contorni simili in tutte le vie del paese.

Se ne sono disfatti tutti, di quelle tv, stanchi di sentire le stesse notizie. «Ce la troviamo noi la verità. Ci vogliono imporre di stare a casa. Di non avere una vita. Di buttare nel cesso il nostro lavoro. Parlano di regole, ma le nostre che fine hanno fatto? Ce la troviamo noi la verità». Così avevano detto in tanti dopo giorni uguali a se stessi, notiziari che sembravano doppioni degli altri.

Una sfilza di nomi, di bare allineate, di carri armati, di suoni di tromba per intonare il silenzio. Di lacrime ormai sbiadite. Di mani tra i capelli. Di preghiere rivolte al cielo. Di canti ripetuti all’infinito per chiedere l’intercessione.

Stanchi di immagini non più proiezioni delle loro ambizioni, delle loro opportunità, hanno iniziato a seguire meno i notiziari, a leggere di meno i giornali e a documentarsi sui social, come se tutta l’enciclopedia umana si fosse concentrata lì. Racchiudendo in un imbuto ogni possibile scoperta. Ogni ricerca. Scambi di like: ogni commento sale nella scala della verità assodata.

Alla fine, in segno di ribellione hanno gettato la TV al plasma. Ma si sono tenuti i pc, droga sintetica di cuori affranti e di anime incontrollabili.

Adunata consentita alle 7 di mattina e dodici ore dopo: quando il drone sorvola le strade e continua a cannibalizzare ogni emozione. La bramosia di ascoltare il messaggio, in quell’appuntamento quotidiano immancabile, fa mettere da parte ogni cosa.

Tutti sul balcone: chi con i capelli arruffati, chi con le ciglia finte, chi con trucco pesante sugli occhi. Molti hanno le occhiaie: non ci tengono a sprecare il loro tempo a truccarsi. Se di eroi si vuol parlare, meglio far vedere come questa guerra li ha ridotti. Loro che resistono con il nero sotto gli occhi, gli zigomi scavati, le cicatrici evidenti ai lati della bocca e intorno alle mani.

È una moltitudine che ha smarrito se stessa. Senza la forza di ritrovarsi. Questi pensieri ormai annebbiati fanno star meglio tutti, o quasi.

Sì, perché c’è chi nel buio, lontano da quei balconi, resiste. Continua a guardare le rondini che fanno ritorno dopo l’inverno. Che svolazzano nel cielo, in un cinguettio più dolce di quello emesso dal drone.

Gli occhi, richiusi in un cannocchiale, fissano il pergolato di glicini, con chicchi che sembrano toccare l’asfalto. Aumentano la lente per guardare meglio in quell’ammasso di colore che fa pulsare sangue in ogni vena. Ossigeno. Quel colore è ossigeno. È vita, proprio come le api che ronzano nel glicine, che mandano messaggi e continuano laboriose a portare avanti la loro eredità. Instancabili.

Senza farsene accorgere, quella mano gira il binocolo in direzione dei terrazzi: qualcuno non ce la fa ad aspettare l’appuntamento con chi ha imprigionato la sua mente. Così, si mette scarpette da tennis, tuta fucsia fosforescente, una fascia tra i capelli tinti di un nero così forte da rimandare alle tenebre, e inizia a camminare. In 5 metri quadrati scansa le piante grasse, le erbacce e conta i passi per arrivare a mille. Beve una bibita energetica: quel sole non ci voleva. Rischia di far vacillare tutto.

E, con una mossa ardita, il cannocchiale gira verso il mare: lì nessuno è più andato. Sulla spiaggia ci sono cespugli di erba e di paglia. I rami secchi, corrosi dalle onde, sono disseminati sui granelli, proprio lì dove i bambini costruivano i loro castelli di sabbia, con pietre a fare da ponte levatoio e a circondare le mura della fortezza.

I pesci, finalmente, nuotano tranquilli in quel blu intenso: hanno ritrovato la loro libertà. Se ne sguazzano nei fondali. Facendosi strada tra la Poseidonia e alghe di ogni specie, rispolverano vecchie tane e si ci intrufolano dopo aver “passeggiato” nell’acqua, catturato le prede o essere scampati a qualche letale attacco. È la vita. E vivono.

Ogni tanto in quell’ammasso di blu e di celeste, scende la luce del faro. Accecante. A intermittenza, il cono di luce crea forme sempre uguali che, però, le onde mutano. Quasi a dire che la mano dell’uomo, le invenzioni, ogni cosa che non è prevista in questo cosmo naturale, è sovrastato. Non ucciso. Semplicemente superato.

«Prendimi la mano. Non avere paura». Sono impietrita davanti a questi uomini e donne armati. Vedo le loro ombre allungarsi sulla strada sporca.

Da mesi si può uscire di casa, ma nessun ci crede che il peggio è passato. Che una nuova realtà si deve costruire. Che si può andare avanti. In quelle gabbie invisibili, preferiscono restare. Le stagioni passano, ma l’annebbiamento del loro intelletto resta. È un’iniezione che rischia di essere fatale. Con tanti ci è riuscita: lentamente sono stati sopraffatti dalla pazzia, in quella lotta incessante tra ragione e sentimento che li ha sfiniti. Consumati.

Sono uscita questa notte. Avevo voglia di passeggiare. Di prendere aria. Ne avevo bisogno come il miele al sapore di lavanda quando la sera mi butto sul letto, tra libri, una tazza di camomilla e quaderni su cui annoto pensieri, sensazioni. Non pensavo di trovarmi di fronte gli uomini e le donne armati. Avrei dovuto capirlo da quel tanfo che ha invaso le mie narici mentre camminavo per strada. Ma la sensazione di poter uscire, di guardare a destra e sinistra, avanti e indietro, era così forte da non farmi sentir nulla, se non il ritmo accelerato del mio cuore.

Si stava atrofizzando.

Forse hanno sentito il rumore dei miei passi. Forse hanno annusato il profumo intenso dei miei pensieri, delle mie emozioni. Forse hanno avuto una soffiata. Non so, in tutta sincerità, come sono arrivati a me.

Me li sono trovati davanti. Armati fino ai denti. A farmi paura non tanto i fucili e quei pugnali, incastrati tra tute nere e pezzi logori di lenzuola sulla fronte. Il tuffo al cuore me l’ha provocato quel loro sguardo: i loro occhi cercavano di invadere i pensieri, i miei. Di ordinarmi a rientrare. Perché il mio gesto poteva avere reazioni a catena.

Avevano già represso delle sommosse. Da giorni, però, non ce ne erano più. Quella mia “pazzia” doveva essere contenuta.

Mi hanno detto qualcosa, ma il mio cervello non ha decodificato il messaggio. Volevo solo continuare a fare il giro dell’isolato, sporgermi un po’ dal costone roccioso, guardare oltre l’orizzonte. Dare libero sfogo alle mie emozioni, alla speranza che ho continuato ad alimentare, anche quando non avevo cibo abbastanza e raggi di sole forti a scaldarmi. Anche quando stavo crollando sotto il peso di ogni presagio, in quel girotondo di fantasmi che reclamano la gloria.

Stavano per attaccarmi: nessun contatto fisico, però. Un fucile – credono sia stata una bella invenzione – spara una rete. Si mettono in cerchio e ti sommergono con quella fitta trama che sa di marciume, come ha urlato chi è stato fatto prigioniero prima di scomparire nella propria casa.

Vedevo poco. Annebbiata. Non so come mi sono ritrovata quella mano davanti. Quelle cinque dita aperte per fermare un’altra carneficina di un’anima speranzosa. A quella mano se ne sono aggiunte poi altre: tutte davanti a formare un muro. Di diversa lunghezza, con diverse venature che ne solcavano la pelle.

Tra i due schieramenti c’è stato uno scambio di pensieri. Una lotta che non sono riuscita a leggere appieno. Il mio sguardo era posato su quelle mani che formavano un circolo di uomini e donne pronte a liberare gli altri dal giogo. Due, all’improvviso, si sono staccate. Qualche passo indietro. Mi hanno raggiunta. Sento ancora quella sensazione delle dita intrecciate alle mie.

«Ti tengo stretta. Ora non ti lascio più andare».

Quella voce. Tutto è diventato più chiaro.

La lotta di pensieri è continuata per un po’. Poi i primi cedimenti. Diffondere odio e paura pare abbia fatto abbassare le difese immunitarie di questi uomini e donne armati. E quella catena di tessere di domino ha iniziato a sgretolarsi. Il peso della speranza è forte. Le loro spalle stanche non riescono più a supportarlo.

Si contorcono. Spasmi. Lamenti prima trattenuti poi amplificati nelle strade non più deserte: dai balconi ci sono decine e decine di occhi che guardano. La scena è ripresa dai telefonini e rimbalza ovunque nell’etere.

Il candore acceca la visione. Quel bianco, che ritorna tra le immagini sepolte dall’orrore, porta a galla sentimenti dimenticati. E iniziano a spuntare timidi sorrisi.

Gli uomini e le donne armati si stanno arrendendo. Un ultimo sforzo prima della resa dei conti. Si inginocchiano. Non chiedono scusa, non dicono nulla. Si mettono le mani davanti il volto per proteggersi. Temono per la loro sorte, per quella vita che si è ridotta a comandi e a ricariche di odio.

Chi era sui balconi inizia a cercare tra le viscere delle emozioni. Scandaglia fino a pescare un barlume di coraggio. E lo porta per strada. Non si accaniscono, però, contro gli uomini e le donne armati. Hanno pietà di loro. E, con un gesto dettato dal cuore, mettono le loro mani accanto alle altre. Allungando quel muro multiforme che si rinforza.

Dopo mesi di apatia, arriva la prima lacrima. Fa un rumore strano. Gli altri non ne sentivano uno così da tempo. Si voltano. E quegli occhi cominciano a vedere chi sta di fronte. Riconoscono il volto, gli occhi, la fronte, persino i gesti.

Tutto il paese è sceso per strada. Risvegliato da richiami lontani. La gallerie dei volti umani si amplia. Quelle mani diventano piano piano abbracci. Quelle righe attorno alla bocca fanno spazio a sorrisi. Quelle parole cominciano a formare messaggi non più di circostanza ma di umanità. Un “bentornati” nella mia vita.

Nessuno ha dato il comando. Sono stanchi tutti di prendere ordini. E di imporne. Quelle mani si allungano verso gli uomini e le donne armati, rannicchiati su se stessi. Tendono un aiuto per rialzarsi, per risollevarsi e gettare quel senso di colpa che potrebbe rosicchiare ogni centimetro del loro essere. Ucciderli.

Qualcuno di loro accetta. Poi gli altri seguono il gesto temerario.

Solo uno rimane in ginocchio, con la fronte posata sull’asfalto. Vuole restare lì. Con armi che ormai non incutono più timore. Non sanno cosa ne sarà della sua vita, ma certo lo aiuteranno, perché chi ha provato l’orrore, chi è uscito dal vortice della distruzione emotiva, non lascia un suo simile a squamarsi la speranza.

Intorno è una festa strana. Tutto il resto è un susseguirsi di emozioni capovolte.

Io sono frastornata. Volevo solo uscire a prendere una boccata d’aria. Le mie mani non sono più intrecciate a quelle due che si erano staccate. Gli occhi hanno ringraziato. I passi fanno tutto il resto.

Sospiro. Il sole è filtrato nella stanza, con lo scacciapensieri che tintinna sopra la finestra. È un nuovo giorno. Sento una strana sensazione, come se le mie mani avessero riavvertito il senso del contatto. Mi volto dall’altra parte. Non c’è nessuno. Non so che sia successo la scorsa notte, ma devo smetterla di bere troppi caffè.

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