Un quadro e un racconto
Racconto di Daniela Grandinetti. In foto il quadro “Vecchia con bambola” di Rocco Normanno
La prima volta che mi sono vista ritratta ho avuto un attacco di spaventite acuta accompagnata da fastidiosi pruriti, nonché vomito con rimpianto per la meravigliosa cheese cake alle fragole che avevo appena mangiato, notoriamente il mio dolce preferito. Eh sì, perché quella nel quadro – ahimè – sono io. E l’autore del quadro – ahimè – è mio padre. E pensare che ero così orgogliosa di avere un padre pittore, famoso non so, ma bravo di certo. In una bella giornata di primavera – me lo ricordo, perché stavo giocando in cortile con Mina – mio padre mi chiamò dalla finestra.
“Pene…. Vieni su!”
A parte il vizio di dimezzare il mio nome, che sarebbe Penelope, urlarlo addirittura dalla finestra era uno strazio (a otto anni non conoscevo il significato di quel termine, ma crescendo e non perdendo lui il vizio, questa cosa mi ha creato non pochi imbarazzi). Ad ogni modo non avevo nessuna voglia di andare in casa.
“Pa’…. Sto giocando..” Balbettai, ben sapendo che non l’avrei impietosito, mio padre aveva un carattere risoluto.
“Vieni su Pene, subito, è urgente.” Infatti. Mi toccò rientrare.
Mio padre era nel suo studio, stava svuotando la parete opposta alla finestra. Dopo aver spostato una sedia più volte sotto il fascio di luce di un faretto, mi disse:
“Ecco, vieni a sederti qui.”
“Io?”
“Tu, e chi se no?”
“E perché?”
“Perché ho deciso di farti un ritratto, ecco perché.”
“A me?”
“A te, che.. non sei contenta?”
No, non ero affatto contenta. Conoscevo il delirio di mio padre quando dipingeva, non lo capivo, ma lo avevo sotto gli occhi di continuo. Così, di malavoglia, andai a sedermi. Ero sulle spine, inquieta, la sedia era scomoda. Mio padre intanto stava sistemando una tela sul cavalletto. La stanza, a eccezione del faretto, era al buio, e la cosa ricordo mi parve assai strana.
“Pene, cerca di stare rilassata su quella sedia”
“Come devo stare?”
“Sforzati di pensare a qualcosa che ti piaccia. Concentrati, anzi…. Aspetta, ho un’idea. Dov’è il tuo Ciccio bello?”
“Ciccio bello? È in camera mia, sul letto”
“Bene, lo vado a prendere, tu intanto cerca di pensare qualcosa, qualsiasi cosa”.
A parte il desiderio di tornare fuori a giocare non mi veniva in mente nient’altro. Mio padre comunque ci mise un nanosecondo a tornare.
“Ecco guarda, prendi in braccio Ciccio bello”. E mi depositò il bambolotto sul grembo. Ero confusa, non sapevo cosa volesse esattamente da me.
“Pene, ho un’idea geniale, mi devi aiutare, va bene?”
Non conoscevo quel tono tra i registri di mio padre, era un uomo brusco. E stava chiedendo aiuto a me. Mi sentii importante.
“Ho un’idea e tu devi aiutarmi”. Ancora? Ma come? Ero impacciata.
Mi sistemò Cicciobello tra le braccia, posizionò le mie mani, mise un piede del bambolotto su un fianco, l’altro penzoloni tra le cosce. Poi si allontanò per verificare l’effetto. Io cercavo di stare immobile. Si avvicinò di nuovo, spostò il faretto controllando l’ombra sul pavimento e senza guardarmi mi chiese:
“Te la ricordi nonna Erminia?”
Io, rigida sulla sedia nel timore di perdere la posizione (desideravo finisse il più presto possibile) annuì debolmente.
“Sì, un po’ me la ricordo.” Dissi.
“Ecco, brava, allora cerca di fare la faccia di nonna Erminia quando era triste.”
La faccia di nonna Erminia quando era triste? E che ne sapevo io della faccia di nonna Erminia quando era triste? Era morta da tre anni, io neanche me la ricordavo la faccia di nonna Erminia. L’ultima volta che l’avevo vista era stecchita nella bara! Mio padre tornò dietro la tela e finalmente cominciò a dipingere. Io pensai che era triste avere un padre matto, non poteva fare l’impiegato, l’avvocato, il fruttivendolo, insomma un mestiere normale come gli altri padri?
“Brava Pene, ferma così, ci siamo”.
Cercai di concentrarmi, mi dissi che solo così sarebbe finita presto. Ma mi sbagliavo. Seduta su quella sedia, in posa per il mio ritratto, ci stetti cinque giorni per qualche ora al giorno. Il secondo giorno mi fece indossare un paio di pantaloni grigi di mio fratello.
“Mi serve quel colore”. Mi disse.
Il pomeriggio aggiunse la felpa rossa di mia madre e passò un bel po’ di tempo prima di avere il numero di pieghe che desiderava. Poi fu la volta di un paio di orrende pantofole che dio solo sa dove le avesse trovate. E ogni volta diceva la stessa cosa.
“Cerca di fare la faccia di nonna Erminia quando era triste.”
A quel punto mi veniva benissimo. Ero più che triste: ero disperata. Per giunta non sapevo niente di cosa stesse combinando sulla tela, era severamente vietato vedere i quadri di papà prima che li finisse. E comunque. Sarebbe stato meglio non sapere, non vedere. Perché quando accadde, quello che vidi mi segnò per il resto della mia vita (oltre a provocare le reazioni già descritte). Quella non ero io, era Nonna Erminia sputata. Cicciobello invece no, era lui spiccicato. E quella sacca piena di urina? Cos’era? Allora non lo sapevo nemmeno cosa fosse, non ne avevo mai visto una. Rimasi muta per il resto del giorno. Quando mio padre entrò in camera mia dov’ero stesa sul letto a smaltire il malessere (quello fisico, perché quello mentale ha richiesto molto più tempo) tutto quello che mi disse fu:
“Vedi Pene, sei troppo piccola, tu non puoi capire adesso, ma un giorno capirai. Questa è un’opera rivoluzionaria. Io ho visto in te, una bambina, il disfacimento del corpo, della vita. Così come tu spesso chiedi il perché delle cose, anche la donna del quadro chiede perché? Perché io? Ero una bambina solo ieri…”
Non capivo e comunque non volevo ascoltarlo, mi diceva cose strane sulla caducità della vita, parole che non conoscevo, io volevo solo dormire. Quella donna era una vecchia e soprattutto non ero io. Era nonna Erminia con il mio Cicciobello. E lui mi aveva preso in giro.
“Vedrai Pene, sento che questo quadro segnerà una tappa nella mia carriera”.
Avevo otto anni, e avevo un padre pazzo. Capivo solo questo. Volevo che uscisse dalla mia camera e mi lasciasse in pace. E poi il quadro non mi piaceva e avevo una gran voglia di dirglielo.
Ma tutto quel che dissi fu:
“Papà, per favore, puoi smettere di chiamarmi Pene?”