Un gelato salato, ossia un ricordo d’amore

Un gelato salato, ossia un ricordo d’amore

Articolo di Gattonero. Foto di Martino Ciano

Aveva conosciuto quella che in seguito sarebbe diventata sua moglie in un incontro casuale e, forse, non si era innamorato di lei ma del suo sesso. Lui solo, lei sola, entrambi adulti e vaccinati, non ci avevano messo molto a capire che sommando i due addendi di solitudine si poteva avere un prodotto economicamente utile. E pure piacevole.

Si erano sposati dopo due anni di convivenza, vissuti prima in camere ammobiliate, poi in un sottotetto al sesto piano di un palazzo antico, con le tegole da sistemare dopo ogni folata di vento; c’era il rischio che la pioggia andasse a spengere il fuoco della vecchia cucina alimentata a cherosene. Con un bidone da venti litri cucinavano per un mese; un peso leggero, non fosse che i piani da salire non avevano l’alternativa di un ascensore. Il letto occupava quasi tutto lo spazio calpestabile, con un tetto a cadenza isoscele e un solo abbaino che si affacciava sulle tegole; ed era, quel letto, divano per leggere, più sovente alcova per amare o per scaldarsi a vicenda durante le fredde notti invernali. I piedi di lei, perennemente ghiacciati, erano attizzatoi che ravvivavano la brace di un fuoco allora sempre vivo, senza ceneri ad attenuarne il calore.

Subito dopo metà giugno di un anno maledetto sarebbero stati 55 in tutto, gli anni di convivenza. Sarebbero stati, non fosse che in quel mese per la prima e unica volta, lo aveva lasciato. Il giorno successivo al suo compleanno, quasi a non voler lasciare avanzi temporali a debito. Teoricamente lo aveva lasciato già quattro anni prima, manco a dirlo, a cavallo del loro 51° anniversario.

Una emorragia cerebrale, verso fine gennaio, aveva resettato tutto il suo passato. Operata, incredibilmente salvata (non miracolosamente, che di miracolato nella vicenda c’era nulla), ma senza più ricordi o sensazioni, per poco più di quattro anni. Dopo la riabilitazione fisica in un centro specialistico, era tornata a casa in perenne agitazione. Uno dei pochi modi per tranquillizzarla era portarla a mangiare un gelato. Ne era da sempre golosa, e la nebbia mentale non aveva cancellato quel piacevole ricordo.

Avevano visitato tutte le gelaterie del paese e di quello vicino, e la ‘cerimonia’ era sempre la stessa: lui la faceva sedere a un tavolino, si recava al banco, ordinava due coppette di gelato misto (senza cioccolato, che non le piaceva), una per lei, una per lui. Lei divorava la sua, lui la assaporava con studiata lentezza: sapeva che, terminata la sua, lei non parlava, non chiedeva, si limitava a guatare quella di lui, che prendeva la coppetta vuota cedendole la sua ancora quasi piena, che in un baleno veniva ripulita.

Ricoverata in una residenza sanitaria, per tutto quel periodo lui non aveva saltato un giorno di andarla a trovare, ripetendo quel rito per decine di volte nel corso degli anni; due posti liberi in una panchina c’erano sempre. Gli bastava vederla, baciarla, raccontarle le cose del mondo di fuori… lei lo fissava, talvolta sorrideva, dava l’idea di capire, di apprezzare le sue chiacchiere… e lui non saprà mai se veramente così fosse. Da allora, ogni gelato gustato (mai al cioccolato, che non le piaceva) è un promemoria di quello che era stato un percorso amarevolmente accidentato. E su quei gelati cade sempre una lacrima.

Lei voleva solo camminare, e del parco che circondava la residenza avevano visitato ogni arbusto, provato ogni panchina, raccolto le ghiande che le querce seminavano tutt’intorno. A passo svelto, quasi per arrivare prima all’epilogo di un libro virtuale che nessuno avrebbe mai letto. Ecco, in quel periodo, temporalmente lungo ma che in realtà era trascorso in un lampo, lui si era reso conto di essere innamorato, e forse lo era da quando si erano incontrati in quel lontano 1968… ma non ci aveva mai fatto caso, o forse la routine dello stare insieme aveva distratto da quel sentimento, quasi affogandolo nella quotidianità di problemi altri, piccoli e grandi.

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