Un borgo di Calabria e le sue vie…
Articolo di Martino Ciano
Docile è l’ottimismo che accarezza questo viso,
mentre il cioccolato fondente macchia i denti,
poi si desta la paura, con lei il dubbio,
e il respiro della vita è di nuovo uno schiaffo,
tra le vie di un borgo non troviamo riparo
Le vie del borgo sono infinite, anche se qui sembrano tutte sbarrate. Pian piano il centro storico si è spopolato. Case disabitate, poche luci di notte, poche finestre aperte di giorno. Si odono mormorii, pochissime voci nette, chiare, come se le persone rimaste avessero timore. Coraggio o rassegnazione? Questo è il dilemma! È migliore chi se ne va o chi resta? Domande sciocche da porsi: il coraggio è tante volte una forma di egoismo.
È coraggioso colui che abbandona tutto e tutti, così come chi rimane e partecipa alla decadenza di un luogo e di una società. Cambia il clima, figuriamoci le persone. Per questo la felicità correva veloce quando negli anni del boom economico tanti decisero di scendere a valle e di costruire una nuova civiltà basata sulla fabbrica, lo stipendio fisso, la casa per sé e per i propri figli, le rate, l’ansia e l’automatismo. Il borgo era una disgrazia, una cloaca di traumi; tornare qui, anche per un attimo, ricordava a molti quelle origini da villani, da cafoni, da gente che dorme, mangia e si riproduce in case minute, in stalle. A valle si sentivano tutti signorotti, anche quelli dai natali disgraziati, coloro che per tirarsi su rubavano fin da bambini galline, uova e pomodori.
Le vie del borgo sono incantate
Tra case ristrutturate, ruderi, muri scrostati, fori testimoni forse di antichi delitti, la vita è anonima e incolore. Il mio amico è nato qui. La sua casa è a trenta metri dalla porta della casa in cui nacque mia nonna. Anche lei scese a valle e non tornò più.
Nessuno dovrebbe tornare nel posto in cui è nato – dice lui – finiti i pochi ricordi belli, si risvegliano i traumi che lo hanno messo in fuga. Fuggitivo! Lui si sente così, come qualcuno che sfondata la porta di una gabbia corre via senza più voltarsi.
C’è il miele della malinconia nella sua voce e la paura del bimbo che attraversa al buio il corridoio della sua casa. È dignitosa la povertà. Lei non disturba, sta lì a portata di mano; la ricchezza è volgare, cammina davanti a te e anche se la acciuffi si libera e ti chiede di correre sempre di più. Ti manda a quel paese senza ritegno e vuole sempre essere servita.
Mentre passeggiamo, notiamo una donna che davanti all’uscio di casa ha allestito un banchetto sul quale lavora della pasta. Sfila lunghi fusilli, mentre l’odore di sugo riempie il vicolo di bontà. Mancano ancora quattro ore all’ora di pranzo, ma qui non si pensa ad altro. Il cibo, la tavola imbandita… ossessioni retaggio dell’antica malnutrizione. Un uomo è povero solo se non ha mangiato, il resto non conta. Il resto è volontà di Dio.
Sai – dice il mio amico – ci sono genitori che ti proteggono da tutto. Il loro amore soffoca, le loro paure ti disarmano. Poi, di colpo ti considerano adulto e per loro sei pronto alla vita, ma non si rendono conto che non ti hanno preservato, ma rovinato. Sei stato il loro capriccio, l’eredità da non dividere con gli altri. Poi si annoiano e ti lasciano in balia del mondo. Dilapidano la loro eredità perché sanno che dovranno morire.
Il mio amico ha lasciato il borgo a ventuno anni. Tre anni a Roma come agente immobiliare, due anni a Bologna come assicuratore, poi è tornato a Roma ed è stato assunto in un’azienda di servizi per l’imprenditoria, non ho ben capito che tipo di servizi, ma è un lavoro a tempo indeterminato. Ha spostato la residenza lì, disprezza il suo paese, il suo immobilismo, la sua famiglia e anche se stesso.
Non voglio figli – ha detto – non voglio fare gli stessi errori dei miei genitori. Io non posso essere diverso da loro.
Le vie del borgo sono finite
Si apre davanti a noi il panorama dei monti. Le cime arroventate dal sole estivo, l’afa che dona loro un colore azzurrino. Strade sterrate danno la possibilità di entrare tra quei pochi boschi rimasti, di cui i piromani hanno avuto pietà. C’è il canto delle cicale a tenerci compagnia; in lontananza si ode il rombo di un vecchio camioncino. La bucolica nostalgia delle corse tra i campi, degli amori terricci, dei figli bastardi nati dalla passione che si infiammava tra una zappata e l’altra, le spighe di grano che ora non crescono più, la terra arida un tempo generosa gli smuovono un sorriso. Ricorda le storie che sua nonna gli raccontava davanti al camino. Era pettegola sua nonna, non si annoiava mai.
Sono arrivati un sacco di soldi – dice il mio amico – riqualificheranno il borgo, ma non ci sarà nessuno di noi a vederlo. Senza gente, il cemento resta cemento e il tempo se lo mangia. Ma a tutti va bene così, io tra quindici giorni me ne torno a Roma. La mia vita è lì.
Il mio amico si mette in bocca un cioccolatino. Fondente e amaro, così gli piace il cioccolato. Fondente e amaro… e amara è ogni sua parola… amare sono le parole di chi ancora ama qualcuno che non potrà più avere.